Proseguiamo oggi nel nostro viaggio attraverso il neoluddismo contemporaneo, che, nel post I #neoluddisti non muoiono mai,1: Internet come fonte di ogni Male, abbiamo detto esplicitarsi “non nel fracassare pc o smartphone, ma nell’attaccare, attraverso i media tradizionali (giornali e televisione in particolare), con analoga violenza e con pervicacia monomaniaca, omnipervasiva, spesso aliena da qualsiasi timore di cadere nel ridicolo quando non nel grottesco, Internet e soprattutto il Web 2.0, stigmatizzandoli come origine e fonte di ogni Male”. Il neoluddismo si declina poi in una serie di veri e propri “topoi”, il primo dei quali è quello secondo cui “Internet ci rende stupidi“, che abbiamo esaminato nella seconda puntata di questa serie. Oggi affrontiamo un altro celebre (o famigerato) cavallo di battaglia neoluddista: quello secondo cui Internet uccide la letteratura.
L’inarrestabile tramonto dei critici letterari
Nel quadro che stiamo tratteggiando merita di essere ripreso un eccellente articolo di Vittorio Zucconi pubblicato il 29 settembre 2013 su La Repubblica: spiega bene il terrore degli “esperti” di letteratura di fronte all’intelligenza collettiva sprigionata da Internet, che non consente più di applicare il modello Comando e Controllo (e più in generale il paradigma dello Scientific Management) al loro campo di specializzazione. Come spesso accade, rovesciano la realtà: accusano Internet di favorire la stupidità diffusa, su cui invece si basa la loro presunta superiorità intellettuale. L’uso che fanno della televisione per vendere i propri libri è la dimostrazione della loro ipocrisia.
Scrive Zucconi: “Gli intellettuali e gli scrittori disperati di fronte all’impero della Rete e all’invadenza robotica dei social network, come Franzen, come Pynchon, come Wolfe, come Morozov, sembrano appartenere a una cabala di “neo luddisti”, di nemici dei telai meccanici che minacciano la loro esistenza, ma per la ragione opposta: per avere semmai visto troppo lontano nella Matrix del World Wide Web. Dove hanno letto l’ineffabile banalità, e la dispotica stupidità, della «intelligenza collettiva». L’idiosincrasia, o la fobia, verso il nuovo, il mai visto prima, l’ignoto, è certamente antica come lo sbigottimento del nostro antenato di fronte al primo cespuglio in fiamme o del monaco amanuense terrorizzato da quelle presse capaci di riprodurre in pochi giorni quei sacri testi che a lui richiedevano anni. Ma nell’avversione di intellettuali come l’autore di Libertà, Jonathan Franzen, come il Thomas Pynchon dell’ultimo Bleeding Edge, il filo di lama sanguinante, il Wolfe dei falò di tutte le vanità umane, tecno o sociali che siano, o del fustigatore instancabile del WWW, il russo Evgeny Morozov in lotta contro la Follia del soluzionismo tecnologico, c’è un filo comune che tesse personalità tanto diverse.
Il filo che li unisce e che sicuramente potrebbe legare anche il Salinger del Giovane Holden nella sua feroce autoreclusione, è la antica paranoia dello sciamano. È l’ansia del medicine man, del santone che vede sfuggirgli il controllo dell’immaginazione collettiva della tribù di fronte ad anonimi infermieri e medici armati di endofoni, vaccini, antibiotici e analgesici. Ciascuno di loro e altri ancora teorizzano il proprio disgusto per cinguettii, faccette, emoticon, pollicioni eretti o versi, blog, linkedin e tutta la farmacopea della «falsa socializzazione» come la chiama Franzen, sotto profili diversi. Wolfe per snobismo di antico amanuense della carta e adoratore ironico del giornalismo, offeso dalla superficialità istantanea e manipolabile della cosiddetta informazione in Rete, capace di produrre più danni e menzogne di quanti non riesca a rimediare. Pynchon, il monaco fintamente savonaroliano che vive nella Upper West Side di Manhattan e manda i figli in esclusive scuole private, legge anche nel web l’ennesima manifestazione del complotto universale e metamorfico, del potere, immaginando una «Rete sotto la Rete» dove nascondere la resistenza, comunque destinata a soccombere…
La mistica dei Salinger o dei Pynchon, degli eremiti della parola, si esalta proprio nel loro rifiuto del pubblico, nella esclusività della loro persona, se non dell’opera, che nel caso di Pynchon è ricca e abbondante.Contestando la nuova, effimera divinità creata dagli Zuckerberg, dai Dorsey, creatore di Twitter, dai Systrom e Krieger di Instagram, si costruiscono un cachet di esclusività, un tempietto di diversità che impreziosisce il loro lavoro. Franzen, che aborre la volgarità, nel senso etimologico e poi linguistico dei social network, non disdegna affatto l’altro medium che intellettuali di qualche decennio or sono maledivano con altrettanto orrore: la televisione.
Eppure, anche sapendo che la dinamica creata dalla Rete non potrà mai più essere fermata né invertita, non essendo mai possibile “disinventare” qualcosa o richiamare indietro il suono di una campana, non si possono licenziare le loro preoccupazioni soltanto come la stizza dell’intellettuale individualista che si deve misurare con la stoltezza fragorosa della “intelligenza collettiva”. Nella cupa visione di Pynchon, di tutti loro il più sconvolto dall’impero della Rete e dalla “googolizzazione” del mondo come lo fu Mary Shelley davantii al possibile Frankenstein o Fritz Lang nell’incubo della Metropolis moderna, c’è la denuncia di quell’inganno che gli interessati sacerdoti della nuova religione, anche i più ruspanti come il nostro Casaleggio, tendono a rovesciare. C’è il sospetto che la apparente libertà espressiva del World Wide Web sia soltanto la manifestazione di una nuova forma di controllo, di divisione e di sfruttamento, nell’apparenza dell’universalizzazione. Già Marshall McLuhan avvertiva, a proposito della televisione e ancor più potrebbe dire della Rete: «La Tv avrà come effetto non la coesione, ma la tribalizzazione della società». Un mondo di tribù vaganti e salmodianti, senza sciamani”.
Cambia la fonte dell'”auctoritas”
A queste osservazioni potremmo aggiungere quelle proposte su La Lettura del Corriere della Sera del 14 dicembre 2013 da Ida Bozzi : “Diciamo che ciò che Eugenides, Franzen, McEwan e i non connessi si perdono, fuori dai social, è quell’utopica o virtuale «società delle menti» cui si sforza di partecipare chi interviene su Facebook o Twitter (spingendo, con following incrociati, perché si realizzi) con tracce dei propri studi, della propria visione del mondo o delle proprie opinioni politiche. E facendolo con i crismi dell’auctoritas. Alcuni esempi si trovano anche in Italia: sono fenomeni seguiti da migliaia di persone, talvolta da centinaia di migliaia, come per Roberto Saviano.
Proprio Saviano aggiorna la sua pagina Twitter pubblicando anche molte foto (celebre quella scattata con Philip Roth, di cui l’americano non fu contentissimo), e certo non soltanto con i resoconti dei suoi viaggi e dei tour promozionali, ma con notizie sui processi per mafia, sulle dichiarazioni di pentiti e sulle minacce ricevute, sul ricordo delle vittime della criminalità, sulla crisi politica in Italia («Consiglio a Berlusconi di leggere Se questo è un uomo per capire sino infondo l’enorme sciocchezza che ha detto»), sui libri letti o sulle frasi che lo hanno colpito, che siano di Cesare Pavese o di Bertrand Russell.
E si può proseguire. Un autore come Aldo Nove castigat ridendo mores tra primarie, forconi, politica, inventa linguaggi o sbeffeggia il tormentone delle petizioni improbabili di cui le home sono inondate («fate girare!!1?!11!!!», con tanto di errori di battitura). Giuseppe Genna innesta in un’analisi sul decadimento (o sulla fine) dell’Occidente i sintomi quotidiani d’una società spettacolarizzata. Tommaso Pincio offre spunti di riflessione o lunare divertimento, con un ciclo pop di post («Nel caso ci sono genti che non sanno…», e la sgrammaticatura è voluta) tra Roy Lichtenstein e i fumetti anni Cinquanta. Tutta visiva la pagina Facebook di Vitaliano Trevisan, che fotografa il «provvisorio definitivo» d’Italia, mentre Erri De Luca si impegna a favore degli istituti di cultura a rischio, denuncia la cattiva gestione dei beni pubblici, discute sullo stato della civiltà stessa…
Sarà forse eccesso di fiducia intellettuale negli autori, ma è un altro, semmai, il fenomeno che abbiamo notato, per la verità solo in Italia, e che forse trattiene molti dall’intervenire sui social: nessuno in America si sognerebbe di obiettare a Bret Easton Ellis che i suoi tweet di gossip, dal look di Paris Hilton alla prima di un film, siano operazioni di marketing per i suoi libri, e non (anche o soprattutto) tracce precise della sua scrittura più «hip»; la partecipazione degli scrittori italiani ai social, invece, suscita una reazione scettica o maligna sull’«interesse di mercato» che spingerebbe gli autori sui social, spesso buttata là da qualche anonimo tra i commenti agli stessi thread, ovvero temi di discussione (come se pubblicare libri e venderli fosse un male, in un mercato in crollo costante, peraltro).
Un’obiezione fiacca, di cui per fortuna gli scrittori s’infischiano, e che potremmo liquidare con la motivazione offerta da Benjamin Anastas per il suo ritiro: «Sono arrivato su Twitter perché avevo un libro da vendere… Ma sono giunto a dubitare del valore di Twitter come piattaforma di marketing»”.
La casta dei critici letterari non si arrende
Nonostante tutto questo, gli “esperti” di letteratura periodicamente tornano all’attacco, nel patetico tentativo di affermare il loro diritto esclusivo a leggere con intelligenza un libro. E’ noto del resto che da Omero a Shakespeare a Dickens gli scrittori si rivolgono solo a loro… Esemplare il seguente articolo di Valerio Magrelli apparso su La Repubblica dal titolo “La solitudine del lettore”: “Una ventina d’anni fa il mercato librario fu investito da una serie di eventi minacciosi. Il primo accadde a Parigi, dove l’editore Marabout pubblicò grandi classici “riassunti”, ossia dotati di segni e freccette per spiegare al lettore quali passi saltare. Il secondo, sempre in Francia, riguardava l’apertura di supermercati del libro diretti a ridurre i prezzi fino al 60 per cento. Il terzo, di portata europea, coincideva con la crisi delle piccole librerie. Il quarto, di origine italiana, vedeva infine la crescita dei bootlegs, edizioni pirata di bestsellers. Libri zapping alla Reader’s Digest, libri scontati come detersivi, libri smerciati negli ipermarket, libri imitati nelle bancarelle: su questo fosco quadro si chiudeva il millennio, mentre già all’orizzonte si annunciava l’ebook. E adesso? Parafrasando un titolo di Fruttero e Lucentini, verrebbe da chiedersi: a che punto è la notte?
Proprio per valutare l’attuale situazione, il New York Times ha dedicato un articolo al tema del lettore non più solitario, ma solo. L’indagine muove da Virginia Woolf, che nel 1925 notava quanto fosse difficile leggere un romanzo. Ebbene, se ciò era vero circa un secolo fa, ora l’impresa risulta ben più ardua. Infatti, da un lato la capacità di concentrazione risulta atrofizzata dal multi-tasking (il piacere- dovere di svolgere più occupazioni insieme), dall’altro appare spesso disturbata dalle attrattive di iPad, iPhone o computer. Ecco allora la principale forma di smarrimento che ha colpito il lettore: la perdita di quella dimensione spirituale che Simone Weil chiamava “attenzione”, e un filosofo quale Malebranche definiva “preghiera naturale dell’anima”.
Subito dopo una simile menomazione, chiunque voglia oggi affrontare un libro degno di questo nome (e non i prodotti di consumo battezzati da Andrea Cortellessa “monnezzoni scala-classifica”), si imbatterà in un’altra difficoltà, dovuta alla scomparsa della critica letteraria giornalistica. In tutto l’Occidente, da metà Ottocento, la stampa contemplava la presenza di una figura semi-sacrale, un professionista delle lettere chiamato a orientare il pubblico in base alle proprie riconosciute competenze. Inutile ricostruirne l’estinzione (basti dire che sin dal 1839 Sainte-Beuve vedeva i rischi di una “letteratura industriale”). Certo è che ormai la sua funzione è stata sostituita da quella di testimonial, tifosi, acquirenti.
E qui va riportata una definizione di Tiziano Scarpa: così come al musicologo è subentrato il dj (ossia disc-jockey, dal termine inglese “fantino”, per indicare colui che “monta” un disco, spingendolo sulle vette della top ten), ora è la volta del bj, o book-jockey, che sprona i libri verso l’empireo dei bestseller. Ecco quindi cantanti, attori, comici o semplici lettori pubblicizzare libri. Il risultato è ovvio; la verticalità gerarchica della rubrica letteraria si è trasformata nell’orizzontalità rizomatica del blog, oppure si leggono semplicemente le recensioni dei lettori su Amazon o, addirittura, i passaggi dell’opera che gli stessi hanno sottolineato di più sui loro Kindle. Invece del consulto professionale di uno specialista (fiscalista, idraulico, ortopedico), ci si scambia pareri fra clienti, utenti, malati. Altrimenti detto, sarebbe come salire il Cervino affidandosi a un collega d’ufficio o a un chitarrista, piuttosto che a una guida alpina. In tal modo, alla fisiologica solitudine del lettore, se ne è aggiunta un’altra, patologica e deontologica: non aver più nessuno a cui chiedere consiglio”.
Come si vede l’incredibile arroganza di questi signori è pari solo al loro desiderio di tenere il “lettore comune” in quello stato di minorità, che consente loro di vivere e prosperare come parassiti sul lavoro di altri, ovvero gli autori dei libri. E pur di mantenere questo stato di cose non esitano a evocare il fantasma della “solitudine del lettore”, quando grazie ai social network la realtà punta dritta nella direzione opposta. Oggi si può leggere un testo sul proprio iPad e commentarlo in tempo reale su Facebook ad esempio, entrando immediatamente in una conversazione viva e molto spesso ricca di stimoli con tutti gli appassionati di quel libro o di quell’autore o in genere di letteratura. E’ possibile scrivere dei libri collettivi (come nel caso de Le Aziende InVisibili) o immaginare progetti narrativi che valorizzano applicazioni come Instagram e possono essere fruiti via Facebook (come ho provato a fare con il mio Winter Beach Tales, attualmente concorrente ai Digital Awards 2104). In questo contesto gli unici a rimanere realmente isolati sono i critici letterari, sempre più disperatamente soli nella torre eburnea della loro presunta superiorità intellettuale, naturalmente inaccessibile a qualsiasi concetto di metadisciplinarietà.
Tema posto in maniera esemplare da Antonella Cilento già qualche anno fa nell’articolo DOVE SONO I CRITICI LETTERARI CON CUI CONFRONTARSI ?, pubblicato sul blog di Massimo Maugeri, che così io commentavo: “Personalmente credo che dietro il problema posto da Antonella Cilento ci sia una crisi più generale che attiene al modello mentale stesso con cui le persone interpretano la realtà. Nella “modernità solida” – per dirla con Bauman – esistevano la divisione del lavoro e quella dei ruoli: dunque avevamo il Critico, il Lettore, lo Scrittore, l’Editore, eccetera. E non solo esistevano i ruoli, ma gli specialismi: quindi i Critici, Scrittori e Lettori di Fisica distinti da quelli di Medicina o di Filosofia o di Letteratura. Il punto, a mio avviso, è che oggi ruoli e specialismi non hanno più senso: nella società liquida, impermanente, della contemporaneità, può essere che un saggio di critica letteraria venga scritto da un esperto di management con il commento di un poercorso fotografico… E’ quello che abbiamo cercato di fare io e Fabiana Cutrano con il nostro Nulla due volte, ricordato anche da Massimo Maugeri in questo stesso blog. Risultato: un Critico solido come Goffredo Fofi ha irriso al volume sulle pagine de IL Sole 24 Ore, salvo ammettere successivamente di non essersi neppure degnato di leggerlo, solo perchè il sottotitolo era Il Management attraverso le poesie di Wislawa Szymborska. Ed è chiaro: per chi ha in testa un modello cognitivo di tipo tayloristico, solido, è impensabile che tramite la poesia si possa leggere il management (o veceversa!!). Fra le persone che hanno invece accolto con entusiasmo la proposta vi è una scrittrice pura come Francesca Mazzucato che di management credo non sappia assolutamente nulla…Insomma chi non sa accettare la commistione, il mescolamento, anche il rischio della Babele, non può che trincerarsi dietro vecchie etichette e vecchi modi conseguenti di gestire il potere. E purtroppo di persone di questo genere e ancora pieno il mondo-diviso-in-mondi, fra cui quelli della Letteratura e della Critica Letteraria”.
Il diavolo e l’Ipad
Non a caso la lettura di ebook e tramite tablet per la casta dei critici letterari è quanto di più diabolico possa darsi. Illuminante sotto questo profilo il commento di spalla al sopra citato articolo di Magrelli dal titolo emblematico “Spegnete i vostri tablet”. L’autore, Mohsin Hamid, così argomenta il suo disperato appello: “Non sempre leggere gli ebook è un’esperienza del tutto appagante. Sì, è possibile modificare le dimensioni dei caratteri del testo, funzione che riveste una sua importanza per me, ora che a 42 anni inizio a rendermi conto di quanto si affatichino presto i miei muscoli oculari. Sì, gli ebook possono essere letti al buio, essere autoilluminati, caratteristica promettente quando mia moglie dorme e io sono troppo pigro per alzarmi dal letto, o quando a Lahore i blackout si protraggono così a lungo da far scaricare anche i generatori di riserva. E infine sì, gli ebook offrono più frequenti indicazioni sul fatto che la lettura procede, dato che la necessità di cliccare lo schermo per andare avanti si presenta con una rapidità superiore alla necessità di voltare la pagina stampata, perché gli schermi a pixel tendono a contenere meno dati delle pagine stampate, senza contare che avanzano una alla volta e non a coppie.
Nonostante ciò, spesso preferisco la lettura del libro cartaceo alla lettura in formato digitale. O per meglio dire, dato che non si può più dare per scontato il predominio della carta, la clettura alla e-lettura… In un mondo fatto di intrusioni tecnologiche, dobbiamo ingaggiare una specie di battaglia se desideriamo conservare i nostri momenti di solitudine. La lettura in digitale spalanca le porte alla distrazione. Invita a connettersi, a cliccare, ad acquistare. Viceversa, il perimetro chiuso di un libro stampato pare offrire maggiore serenità. Riporta indietro nel tempo, a un’epoca antecedente alla connessione alla realtà virtuale. Tela, carta, inchiostro di fatto sono elmetto, corazza, scudo. Essi offrono un certo grado di protezione e rendono possibile un’esperienza di lettura meno mediata, meno frammentata. Fanno la guardia al nostro isolamento. È per questo che li amo. Ed è per questo che leggo tuttora i libri stampati”.
Suppongo che se il signor Hamid fosse vissuto al tempo dei Sumeri, avrebbe visto con orrore l’avvento del papiro che minava la solida sicurezza della sapienza racchiusa nelle tavolette d’argilla! Ma la cosa più grottesca è che quella “solitudine del lettore” nella colonna accanto evocata come una specie di rischio mortale, diviene subito dopo la salvezza contro la condivisione consentita dagli iPad. Insomma pur di contrastare le logiche dell’intelligenza collaborativa del web 2.0, questi signori non si vergognano di affermare tutto e il contrario di tutto.
3 – continua