Luddismo e neoluddismo
“Il luddismo – troviamo scritto su Wikipedia – è stato un movimento di protesta operaia, sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra, caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale. Macchinari come il telaio meccanico, introdotti durante la rivoluzione industriale, erano infatti considerati una minaccia dai lavoratori salariati, perché causa – a loro modo di vedere – dei bassi stipendi e della disoccupazione. La distruzione di macchine industriali come segno di protesta avvenne già alla fine del XVIII secolo, ma solo sotto l’influenza della Francia e dei giacobini inglesi la protesta prese i caratteri di un movimento insurrezionale.
Il nome del movimento deriva da Ned Ludd, un giovane, forse mai esistito realmente, che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd divenne simbolo della distruzione delle macchine industriali e si trasformò nell’immaginario collettivo in una figura mitica: il Generale Ludd, il protettore e vendicatore di tutti i lavoratori salariati oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale.
Oggi con il termine luddismo si indicano tutte le forme di lotta violenta contro l’introduzione di nuove macchine e, per estensione e con intento denigratorio, ogni resistenza operaia al mutamento tecnologico”.
Ebbene, credo che oggi sia possibile parlare di una nuova forma di luddismo (ergo, di “neoluddismo”): quella che si esplicita non nel fracassare pc o smartphone, ma nell’attaccare, attraverso i media tradizionali (giornali e televisione in particolare), con analoga violenza e con pervicacia monomaniaca, omnipervasiva, spesso aliena da qualsiasi timore di cadere nel ridicolo quando non nel grottesco, Internet e soprattutto il Web 2.0, stigmatizzandoli come origine e fonte di ogni Male. Anche se non si può dire che si tratti un movimento consapevolmente organizzato, possiamo rilevare come i protagonisti di questi attacchi sono giornalisti, intellettuali, “esperti” di ogni genere e tipo. Costoro vedono con terrore l’affermarsi di un modello di “social organization” (non solo a livello imprenditoriale e più in generale economico, ma a livello culturale e politico) che ne mette in crisi il potere consolidato sulla base di una forma di comunicazione broadcasting, verticale, uno-a-molti e soprattutto fondata sul modello taylorista del “Comando e Controllo”. Sono ormai sulla strada di un inarrestabile declino, ma certamente è gente dura a morire.
La strategia del neoluddismo
La strategia fondamentale del neoluddismo consiste nel declinare in tutte le forme possibili e immaginabili il sentimento primordiale della Paura di fronte a qualsiasi genere di cambiamento, soprattutto se legato all’affermarsi di nuove tecnologie. Non a caso gli autori di The social organization individuano proprio nella Paura il fondamento della resistenza manageriale all’avvento dei nuovo modelli organizzativi basati su collaborazione, emersione dal basso di competenze e conoscenze, fiducia, trasparenza, eccetera (vedi Capitolo Quarto de L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization e il post HR 2.0? Una social media strategy per le risorse umane. Parte settima. Dalla famiglia professionale alla learning community).
Come ricorda il fenomenologo Adriano Ardovino nel suo ottimo Raccogliere il mondo (Carocci, 2011), già Rheingold (2002, p. 297) aveva sottolineato come le nuove tecnologie “smart mobs” (l’autore usa questo termine non solo in relazione ad ogni dispositivo mobile capace di connettersi in Rete, ma anche nel senso di “moltitudine intelligente”, riferendosi agli effetti di questi strumenti sulle comunità umane) presentano almeno tre tipi di potenziali minacce:
– minacce alla libertà. L’informatica pervasiva insieme alla sorveglianza totale fornisce il potere assoluto di interferire nella vita privata descritto in 1984 di Orwell;
– minacce alla qualità della vita. Dalla depressione individuale al deterioramento del senso di comunità, non è chiaro se la vita in una società informatizzata porti dei vantaggi più di quanto non sgretoli la salute mentale e l’educazione;
– minacce alla dignità umana. Quanto più affidiamo parti importanti della vita alla simbiosi con le macchine, tanto più ci assimiliamo ad esse e meno umani diventiamo.
Naturalmente sottovalutare o ignorare queste minacce conduce solo a forme ingenue di tecnoentusiasmo inevitabilmente destinate a trasformarsi in tecnodelusioni. Lo dimostra molto bene Luca De Biase raccontando la vicenda del “giovane attivista bielorusso, Evgeny Morozov che credeva nelle opportunità offerte da internet per la democrazia e combatteva la sua battaglia ideale sostenendo blog e social network come strumenti di miglioramento della libertà di espressione. Ma si accorse presto che i governi autoritari possono rispondere non solo introducendo varie tecnologie di censura, cui gli attivisti tentano di rispondere con software che difendono la libertà di comunicazione, ma anche usando la stessa internet per fare propaganda, per disturbare i blogger con interventi diffamatori, aggressivi e fuori contesto, per individuare i dissidenti e per connettere ogni dissidente scoperto alla sua rete sociale e ai suoi referenti internazionali.
Per questa esperienza, Morozov è stato tentato di abbandonare la sua lotta per la democrazia. Poi ha trovato un’idea migliore. Ha scritto un libro che serve piuttosto ad abbandonare il cyber-utopismo e l’internet-centrismo. Per trovare la strada giusta che conduce a usare internet come uno strumento e non un fine. E quella strada parte dalla consapevolezza che ogni azione in favore della democrazia nei paesi autoritari parte dalla conoscenza del contesto e delle esigenze specifiche della popolazione locale.
Il libro di Morozov, “Net delusion”, è un libro d’amore per la democrazia che non dimentica le ragioni della storia e della geo-politica. Solo gli illusi possono essere delusi. E solo chi è davvero interessato al risultato di alimentare e diffondere la democrazia può comprendere come superare la delusione e ripartire con ancora maggiore energia. Il fatto è che il cyber-utopismo, come del resto l’ideologia internet-centrica, sono sistemi di pensiero densi di motivazioni costruttive, ma se presi alla lettera si rivelano illusori come ogni semplificazione idealista. E sono stati usati come leva della straordinaria diffusione di internet nei primi tempi dell’esplosione del suo utilizzo in Occidente.”
I tecnoentusiasti rivoluzionari sono insomma il contraltare dei neoluddisti reazionari. Fra i due tipi umani tuttavia ritengo i secondi di gran lunga più pericolosi, perchè unicamente regressivi e distruttivi, oltreché espressione di un establishment ultraconservatore: i primi al massimo sono ingenui, anche se non va mai dimenticato che i confini fra utopia immaginata e distopia reale sono spesso labili.
Ed è proprio qui che i neoluddisti sono abilissimi: nel dare vita ai fantasmi collegati a minacce (che, sia chiaro, lo ripeto, certamente hanno un fondamento) di un futuro distopico in cui Internet diviene di volta in volta il contraltare contemporaneo del Grande Fratello orwelliano; del Vaso di Pandora fonte di calamità e catastrofi; del Peccato Capitale e di tutti i Vizi e le Perversioni; di ogni genere di Follia, dalla Depressione alla Schizofrenia passando per le forme più smodate di Narcisismo. Del resto già Castells aveva segnalato, scrive Ardovino, “l’assommarsi di studi e inchieste che si concludono inevitabilmente, di tempo in tempo, con moniti e allarmi sugli effetti regressivi della tecnologia, responsabile di forme di socialità caratterizzate da isolamento, riduzione, semplificazione e sostanziale impoverimento relazionale”.
I limiti del neoluddismo
“I limiti di questo dibattito – aggiunge il filosofo italiano – sono tre e derivano dalla mancanza di aderenza empirica e dall’assenza di riscontri sulla fase matura dei processi analizzati…., ma in terzo luogo dalla contrapposizione semplicistica e fuorviante tra l’armoniosa comunità locale di un passato idealizzato e l’esistenza alienata di nettitudini solitarie, associate spesso agli stereotipi dell’invadenza tecnologica” . Che, aggiungo io, hanno le radici profonde e lontane di cui ho parlato in varie occasioni, ad esempio nel paragrafo “Dalla gestione della macchina organizzativa alla cura degli stakeholder” del post L’era aurea del management è adesso. Per chi ha intelligenza collaborativa – parte terza: “Da tutto questo (il confronto fra Scientific e Humanistic Management, ndr) discendono due modi di concepire le persone: risorse umane “unidimensionali” e interscambiabili, cloni, simulacri e replicanti dickiani, irresponsabili e irriflessivi, ciecamente obbedienti, versus identità uniche e molteplici, soggetti “in divenire” e pertanto mutanti, per quanto consapevoli della propria “singolarità”, aperti al futuro e in “colloquio” con il mondo circostante, liberi in quanto capaci di vincolarsi a scelte responsabili. Persone la cui più concreta caratterizzazione è data dal rovesciamento delle tesi classiche sul futuro sia dei critici – dal Charlie Chaplin di Tempi moderni a Jeremy Rifkin – sia degli apologeti – da Marinetti a Nicholas Negroponte – della società moderna. Esse infatti condividono l’idea che le macchine, i computer, finiranno con il surrogare il lavoro umano, uccidendone lo “spirito”, rinchiudendo il “fantasma nella macchina”, per usare una immagine metaforica mutuata da Arthur Koestler, che si riferiva ai rapporti mente-corpo (e ripresa anche dai Police in un loro famoso disco, Ghost in the machine, appunto, dove proclamavano: We are spirits in the material world). In realtà, la massima potenza tecnologica richiede di liberare il “fantasma nella macchina”, ovvero una sempre maggiore valorizzazione delle conoscenze intangibili e della creatività degli individui”.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque: se non fosse che nel corso degli ultimi mesi si è registrata una vera e propria escalation di attacchi neoluddistici sferrati dai più importanti luoghi di “informazione” istituzionali. La caratteristica comune a questi attacchi (che costituisce la cifra fondativa del neoluddismo) sta nell’elevare all’ennesima potenza la negatività di ogni forma di “esistenza in Rete”, disconoscendone o quantomeno depotenziandone qualsiasi positività. Ancora Ardovino propone qualche esempio illuminante: il neoluddista trascura sistematicamente che “il social networking non abilita semplicemente dinamiche (siano pure esse maggioritarie) di degrado dell’amicizia o dell’interazione affettiva in genere, ma anche legami non convenzionali e reti di affiliazione diffusa, che in molti contesti hanno finito per generare processi virtuosi di aggregazione socio-politica, ormai non più scorporabili dalle tradizionali pratiche di mobilitazione, contestazione e resistenza nei confronti di istituzioni e poteri manifestamente illiberali.
Allo stesso modo, una fondamentale e ormai matura pratica di rete come il blogging non abilita semplicemente dinamiche di intrattenimento culturale, né diffonde solamente un pensiero corrivo (quando non tendenziosamente dedito alla costruzione di notizie incongrue o addirittura false), ma garantisce forme di dibattito incomparabilmente plurali e in molti casi la più pura e autentica “controinformazione”.
Così ancora, il video-sharing non consiste esclusivamente nel riciclaggio mediatico, in pratiche di mash-up che riducono appunto in poltiglia i formati audiovisivi più diversi, o nella circolazione di contenuti insulsi, diffamanti e talora eticamente intollerabili, ma può costituire, in concomitanza con dispositivi che consentono la cattura e la condivisione in tempo reale degli eventi…, un sostegno fondamentale a pratiche di “reportage diffuso”, e in tal senso una risorsa documentale di primaria importanza”.
Per mostrare la rilevanza di questo fenomeno ho tenuto monitorate in particolare le testate giornalistiche Il Corriere della Sera e La Repubblica, dando conto di quanto andavo raccogliendo sul mio profilo Facebook. Entrambi gli organi di stampa propongono pezzi di ispirazione pesantemente o moderatamente neoluddista a scadenza quasi quotidiana, solo talvolta equilibrati da qualche articolo più lucido. Di seguito e nei prossimi post di questa serie ne propongo una sintetica panoramica, che copre solo in minima parte la montante offensiva neoluddista scatenata dai membri delle varie “caste” il cui potere è intaccato dai nuovi modelli cognitivi imposti dal Web, la cui virulenza è pari solo all’impotenza a fronteggiare la “rivoluzione social” che implicitamente questa serie ripetuta e ossessiva di attacchi alla Rete esprime.
Il fine è quello, purtroppo ancora attualissimo, già indicato da Lévy nel 1995: “la brutalità della destabilizzazione culturale non deve farci desistere dal discernere le forme emergenti socialmente più positive e dal favorirne lo sviluppo”. La posta in gioco (così Ardovino sintetizza il pensiero di Lévy) “è di fare della rete telematica globale un autentico oggetto comune, nel duplice senso di operatore e induttore di intelligenza collettiva (io direi “collaborativa”) e di bene comune che collega non solo macchine ma persone: un bene da difendere (a partire dall’accessibilità della sua infrastruttura) contro ogni limitazione autoritaria”.
Neoluddismo n. 1: Internet “ti” rende stupido
Nell’estate del 2008 su The Atlantic Nicholas Carr ha pubblicato l’articolo Is Google Making Us Stupid? che è stato letto e discusso ampiamente sia sui media sia nella blogosfera. Argomento principale di Carr è che Internet potrebbe avere effetti negativi sulle nostre capacità cognitive, in particolare quelle di concentrazione e di contemplazione. Il libro più recente di Carr, The Shallows, pubblicato nel giugno 2010, sviluppa ulteriormente questo argomento. Oltre ad essere un candidato al Premio Pulitzer, il libro è stato tradotto in 17 lingue, divenendo così la bandiera e il punto di riferimento ideale di tutti i neoluddisti.
Un buon esempio dell’amplificazione terroristica degli argomenti già di per sè spiccatamente neoluddisti proposti da Carr è stato offerto da Vittorio Sabadin su La Stampa:“The Shallows, What the Internet is doing to our brains non lascia spazio all’ottimismo: nell’arco di pochi anni saremo tutti superficiali, incapaci di concentrarci per più di qualche minuto o di distinguere una informazione importante da quelle irrilevanti.
Il vero guaio è che Nicholas Carr non è più solo: decine di scienziati in tutto il mondo condividono le sue conclusioni. L’uso di Internet e degli altri potenti strumenti di comunicazione che teniamo in tasca sta modificando i neuroni del nostro cervello, sempre pronti ad adattarsi a nuove situazioni. «È come se la tecnologia stesse riprogrammando le nostre menti» ha confermato al New York Times Nora Volkow, una delle più importanti esperte del sistema nervoso centrale. La massa di informazioni in arrivo attraverso il web, il telefono, le e-mail sta cambiando non solo il modo con il quale ci informiamo, ma anche quello di pensare e di reagire.
Gli stimoli che riceviamo ormai senza interruzione provocano il rilascio di dopamina nel cervello, esattamente come fanno il cibo e il sesso: la dopamina crea dipendenza, e la sua assenza provoca una sensazione di vuoto e di noia. Sarà forse per questo che molte persone non riescono a tenere a bada quella voce inconscia che continua a ripetere di controllare le e-mail o gli sms, anche mentre si sta parlando con altri o si sta partecipando a una riunione. Quando ci svegliamo al mattino, le prime attenzioni vanno alle informazioni arrivate nella notte sul telefonino e solo una crisi di astinenza può spiegare le inutili telefonate che si fanno appena si scende da un aereo.
Il conflitto in atto all’interno delle nostre scatole craniche ha davvero qualcosa di preoccupante. Una parte del cervello – ha scritto Matt Ritchel in un approfondito articolo sul New York Times – è come una torre di controllo che decide quali sono le priorità. Altre parti più «primitive», che analizzano i suoni e i segnali trasmessi dalla vista, ora bombardano la torre di controllo in continuazione, rendendo sempre più difficile stabilire le priorità. Questo sistema d’allarme si è sviluppato in un lungo processo evolutivo e serviva essenzialmente a fare fronte all’avvicinarsi di un leone. Applicato al trillo di una e-mail in arrivo produce però la stessa sensazione di urgenza, facendoci ritardare cose più importanti, come finire bene un lavoro o giocare con i propri figli”.
Come si vede, siamo al cospetto di una modalità argomentativa che rientra esattamente nelle categorie di Rheingold sopra ricordate. Sul tema, vero evergreen in Rete e non solo, riprendo quanto scritto nel post Alice attraverso lo schermo (parte seconda). Il post è dedicato al libro di Vanni Codeluppi L’era dello schermo, che ad un certo punto prende una piega decisamente neoluddista. Gli schermi in cui si specchia la “generazione F” simbolicamente rappresentata dalla nostra Alice Postmoderna e Nativa Digitale (by the way, sapevate che uno dei primi giochi per Mac era ispirato ad Alice attraverso lo Specchio?), diventano per Codeluppi luoghi ingannevoli, alienanti, regressivi: Internet spaccia la realtà virtuale per l’unica realtà possibile; i social network, ed in particolare Twitter, danno “l’impressione di essere introdotti all’interno del flusso informativo che conta, mentre in realtà si continua ad esserne irrimediabilmente tagliati fuori”; i fan non hanno alcun potere reale, eccetera. Una serie di luoghi comuni che Codeluppi condivide con il “neorealista” Maurizio Ferraris, gli scientific manager, i leader conservatori come l’inglese Cameron (che ultimamente sembra essersi in parte ricreduto) o il turco Erdogan (che invece ancora oggi pensa che “i social network siano “la peggiore minaccia della società”, dove è possibile trovare “le bugie migliori”) e i dittatori di tutto il mondo.
Neoluddismo n. 2: Internet “ci” rende stupidi
Sintomatica la conclusione dell’articolo scritto da Ferraris su La Repubblica del 29 maggio, intitolato Il ritorno del noi: “A mio avviso è proprio nei confronti del web che appare più che mai necessaria una vigilanza critica nei confronti della produzione di un “noi”. Perché le condizioni regolate della documentalità , quelle che appunto possiamo trovare in un atto espresso in forma esplicita (costituzione, compravendita, testamento), e cioè la riconoscibilità dei confini del “noi”, la piena consapevolezza e la solennità dell’impegno vengono meno. Pensate alle pagine di Facebook in cui il tribuno di turno chiama a raccolta i suoi sostenitori per condividere delle idee che normalmente trovano la loro forma di aggregazione nella condanna dei “loro”, degli altri. Qui si crea una illusione di intenzionalità collettiva chiaramente ingannevole. I sostenitori che scrivono “mi piace” lo fanno magari senza pensarci, tanto non sono impegnati a niente. Le quantità sono soggettive: già una decina di “mi piace” sembra indicare un consenso assoluto. I commenti sono estemporanei come i discorsi al bar, ma diversamente da quelli permangono, e soprattutto sono prevalentemente positivi, rafforzando la convinzione del tribuno di aver ragione. E il “noi”, da potenziale veicolo di intelligenza collettiva, si trasforma in una manifestazione non confortante di stupidità di massa, anzi, non esageriamo, di gruppo”.
Non voglio arruolarmi nell’esercito dei tecnoentusiasti senza se e senza alla Riccardo Luna o con qualche prudenza in più alla Gianni Riotta, secondo cui il “web rende liberi” (sinistra assonanza, sia pure espressa in forma interrogativa, con lo slogan che campeggiava all’ingresso dei campi di concentramento nazisti), ma ho già espresso più volte in questo blog le mie obiezioni al pensiero di Maurizio Ferraris con particolare riferimento alle valutazioni espresse nei confronti del web 2.0 (cfr. ad esempio I nostalgici del pensiero forte – Alice annotata 22b). Viceversa, ho affermato l’idea secondo cui anche Facebook può diventare un “mondo vitale” (vedi anche: Il Social Network è un Mondo Vitale? – Alice annotata 41) a condizione che si rispettino i 5 principi cardine (co-generazione, coinvolgimento, convivialità, convocazione, cura) che consentono di generare quell’intelligenza collaborativa che descrivo in particolare nell’ultima parte del libro L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization” e che propongo come antidoto alla “stupidità diffusa” fondamento e al tempo stesso effetto del dilagante scientific management, vero responsabile della crisi economica e morale attuale. Come del resto è stato scritto anche recentemente su La Lettura del Corriere della Sera, il neorealismo appare sempre più chiaramente come “un nuovo populismo“.
1. Continua