La social organization, in cui si sostituisce la tradizionale gestione statica per processi e funzioni verticali con una dinamica fondata sulla crescita di community collaborative orizzontali, sta diventando sempre più diffusamente il modello di riferimento per le aziende pubbliche e private che vogliano ottenere i vantaggi derivanti dalla valorizzazione dell’intelligenza collaborativa diffusa al loro interno come al loro esterno. Con uno slogan efficace postato attraverso l’hashtag #intelligenzacollaborativa su Twitter possiamo dire che si sta passando “dalla divisione alla con-divisione del lavoro”.
In questo quadro è affascinante osservare la continua evoluzione della figura del community manager. Quella che era una volta una posizione raramente presente in azienda e ancor più difficilmente gestita da persone interne all’organizzazione, è diventata sempre più centrale.
Per cogliere la natura di questo cambiamento basta dare un’occhiata al Report 2013 di The Community Roundtable sullo Stato del Community Management: un documento atteso ogni anno dagli addetti ai lavori perchè offre sempre importanti spunti di riflessione.
La ricerca di quest’anno non delude le aspettative. Vediamo qualche risultato proposto dai ricercatori.
I community manager non sono solo tecnici La ricerca mette in luce “più chiaramente di quanto non sia stato in passato” un elemento controintuitivo: il possesso di specifiche competenze tecniche non è il requisito primario per diventare un buon community manager. Piuttosto, si tratta di individuare persone che abbinino atteggiamenti e mentalità (in una parola: intelligenza) collaborativi alle competenze connesse ai processi che sono oggetto del lavoro collaborativo della community. Questo dato è confermato anche dalla mia esperienza di consulente: a noi di Hitrea sempre più frequentemente viene chiesto dalle Direzioni HR un aiuto nel costruire community del tipo Hub and Spoke fondate su metodologie di Talent management 2.0, che consentono appunto di individuare in primo luogo i knowledge owner di processo e quindi, fra questi, coloro che più di altri risultano dotati di capacità collaborative, messe in evidenza dal loro essere snodi conversazionali all’interno del “Personigramma” (attraverso Social Network Analysis): cfr. Dal management 1.0 alla social organization.
L’importanza della personalizzazione
Qualcuno avrà sentito parlare della regola “90-9-1”, in base alla quale per ogni 100 persone in una community 90 sono lurker (osservatori passivi), 9 sono contributori/diffusori e solo 1 crea nuovi contenuti. I dati di The Community Roundtable sfidano questa regola, dimostrando che molte comunità hanno in egual numero creatori e contributori. Questo risultato è legato alla qualità del community management, ma anche ad altri fattori come la precisa definizione di una value propostion, ovvero lo scopo del lavoro collaborativo svolto da quella specifica comunità, l’identificazione del tipo di community più adatta a perseguire quello scopo (di qui l’importanza del processo di “community mapping” che descrivo nel volume L’intelligenza collaborativa) e quindi la scelta del social tool più coerente con value proposition e tipologia di community.
In sintesi si tratta di capire che ogni community ha delle caratteristiche specifiche e particolari, proprio come ogni individuo: per farla nascere e crescere armoniosamente, è fondamentale soddisfarne le esigenze specifiche. Proprio tutto il contrario di quello che generalmente avviene: troppo spesso si parte da un vincolo tecnologico (per cui ad esempio, siccome si ha in dotazione Sharepoint, magari versione 2007, bisogna comunque usare quello; oppure si parte dallo scaricare Yammer “perchè è gratis”) che solo casualmente si sposa con la specifica natura della community che si intende sviluppare. In questo modo (come scrivevo già in Quale strumento per il lavoro collaborativo?) si finisce non per fare ciò che è necessario al perseguimento degli obiettivi aziendali, ma solo ciò che ti consente lo strumento (che diventa il fine e non, come dice la parola stessa, il mezzo del lavoro collaborativo).
“I community managers sono hub”
Questa frase tratta dal Rapporto indica un aspetto importante dell’evoluzione di questo ruolo. I Community manager di oggi hanno responsabilità enormi, perché rappresentano il punto di collegamento vitale fra l’azienda e i membri della community che gestiscono. Se ad esempio sono responsabili del Customer Care su un social network come Facebook si trovano a diretto contatto con i bisogni e le esigenze del cliente e rappresentano quindi un terminale importantissimo per diffondere alle funzioni aziendali preposte informazioni chiave per ritarare in tempo reale la qualità di prodotti e servizi offerti.
In generale il loro ruolo sta assumendo un valore strategico sempre più forte non solo perchè la loro capacità di gestire la community è essenziale per la sua produttività, ma anche perchè sta diventando critica la loro capacità di fare circolare le informazioni e le conoscenze anche all’esterno della community, indirizzandole ai corretti gangli organizzativi in maniera efficiente (e contemporaneamente sapendo cogliere gli stimoli esterni traducendoli in nuovi input per il lavoro collaborativo interno alla community).