In vista del prossimo Social Business Forum, ho avuto l'opportunità di intervistare due relatori importanti fra i molti che parteciperano all'evento. Ho potuto così confrontarmi con loro circa gli assunti base del Modello di Sviluppo Organizzativo per la trasformazione delle aziende in social organization, proposto dallo Humanistic Management 2.0, che in questi giorni sto discutendo in vari contesti (in particolare ieri presso BancaIntesa cfr Verso la Corporate Social Identity: come ripensare strategia e modelli organizzativi per vincere la sfida del Management 2.0 - e sabato al Convegno Futura).
Il primo relatore è Thierry de Baillon, il fondatore di Transitive Society, una società di consulenza pensata per aiutare organizzazioni pubbliche e private nel rendere visibili e sfruttare meccanismi di creazione del valore basati su service design e design thinking. Thierry ha lanciato inoltre il Future of Collaborative Enterprise project, un laboratorio aperto finalizzato a comprendere il futuro delle organizzazioni nell'epoca della hyper-connettività.
Il secondo è Björn Negelman, un’analista di business ed entusiasta del social software, che aiuta le organizzazioni a comprendere il valore di business e l’impatto dirompente delle tecnologie sociali. In qualità di consulente presso N:Sight Research (azienda del gruppo Kongress Media) Björn progetta ed eroga progetti di open research sul management e sulle strategie di social business.
Minghetti: Enterprise 2.0 (McAfee); Management 2.0 (Hamel), Social Organization (Bradley/McDonald): qual è la migliore definizione per il nuovo modello di organizzazione 2.0 "ai tempi del social business"? Quanto è importante è l'idea di "comunità" in questo nuovo modello?
de Baillon: Preferisco procedere per eliminazione. Per me, la visione di McAfee mette troppa enfasi sulla tecnologia, partendo dal presupposto che è sufficiente da sola a cambiare i comportamenti. Io non credo nell'affermazione "butta dentro un po' di social software e il resto verrà da solo". Hamel, al contrario, pone l'accento sul manager, sul suo potere come leader. Ma la leadership è, come afferma Mintzberg, parte integrante del ruolo di un manager, anche se molti quadri intermedi non sono all'altezza di questa definizione. Direi piuttosto che i manager dovrebbero favorire la collaborazione invece di ostacolarla. La leadership di servizio, come definita da Greenleaf, è quella che si adatta di più ad una organizzazione 2.0.
Infine c'è la social organization di Bradley, che sarebbe una buona definizione se ci fosse qualcosa come una organizzazione. Ma di norma le aziende sono costituite da reparti diversi, culture diverse, cerchi di sub-influenza diversi, ciascuno con il suo ruolo e uno specifico modo di lavorare. Viceversa, le comunità vivono su una passione condivisa, che è forse l'unica motivazione che porta le persone a collaborare in modo efficace. Quindi, sì, in un modello organizzativo 2.0 il concetto di comunità è centrale.
Negelmann: L'idea chiave del futuro modello organizzativo sta sicuramente girando intorno alle intuizioni di Gary Hamel, relative alla necessità per le imprese di adattarsi velocemente ed efficacemente al nuovo ambiente competitivo in maniera sistemica. Da questo punto di vista il Management 2.0, o "social business" è un mezzo efficace per giocare un nuovo gioco imprenditoriale, un gioco in cui le comunità hanno certamente un ruolo centrale.
In questo quadro Bradley e McDonald spiegano con efficacia come utilizzare il digitale per costruire l'adattamento dell'organizzazione alle nuove logiche "social". Nel loro libro si descrive una tabella di marcia per impostare con successo una nuova forma di organizzazione che è più efficace nel gestire i fattori ambientali grazie all'uso di tecnologia sociale. Last but not least, McAfee ha definito per primo le modalità fondamentali attraverso cui queste tecnologie sociali stanno stanno generando valore nelle aziende.
Riassumendo – nessuna di queste definizioni definisce completamente l'"organizzazione 2.0 nell'era del social business", perché non è la tecnologia che definisce una nuova cultura – anche se costituisce un fattore abilitante per il cambiamento organizzativo, nonché un mezzo per organizzare l'impresa in modo più adattivo rispettivo al contesto esterno. Se però devo fare una scelta, voto per Gary Hamel, perché sta facendo avanzare la discussione verso il livello strategico sottolineando la centralità della prospettiva di un radicale sviluppo organizzativo.
Minghetti: Restiamo allora un attimo su Hamel. Egli sostiene che la nuova mentalità "sociale" per l'organizzazione 2.0 richiede un nuovo set di principi manageriali: apertura, co-creazione, collaborazione … Quali sono i più importanti? E come li definiresti, anche in termini di caratteristiche di un possibile modello di leadership 2.0? Sei d'accordo con la definizione di "servant leadership" proposta prima da Thierry?
Negelmann: per quanto riguarda la leadership, vorrei citare i cinque attributi menzionati in un saggio di Russ Roberts e Paul Hirschin in un volume pre-social-age sul futuro della gestione delle risorse umane, curato da Loosey / Meisinger / Ulrich nel 2005:
"I leader di grande successo possiedono cinque attributi chiave:
1. Sono guidati da una forte visione personale.
2. Sanno coinvolgere gli altri nel processo di esecuzione della loro visione e sanno come raggiungere il successo.
3. Sono fortemente coerenti con i valori e comportamenti loro richiesti.
4. Hanno il coraggio di fare ciò che è giusto e necessario.
5. Sono modesti, sono "servant leader" il cui primo obiettivo è di rendere gli altri in grado di ottenere risultati di successo".
Queste caratteristiche sono perfettamente coerenti con un modello di leadership adatta a sostenere la diffusione di tecnologie sociali, soprattutto, ovviamente, se esse si accoppiano alla fiducia che la tecnologia sociale è il fattore abilitante per l'effettiva trasformazione dell'organizzazione.
Minghetti: Su questo siamo perfettamente d'accordo, quanto dici coincide in buona misura con il concetto di leadership convocativa espressa dallo Humanistic Management 2.0.
Negelmann: Per tornare ad Hamel, personalmente non credo che la trasformazione "sociale" delle organizzazioni passi principalmente attraverso la definizione di singoli principi manageriali, bensì attraverso la comprensione di come la complessità ambientale crescente cambia a livello globale la natura stessa del business. Le imprese sono sistemi adattativi complessi e la "tecnologia sociale" è un modo per rispondere alle esigenze di business in modo nuovo e più efficace.
Insomma, è la natura in forte cambiamento del business che richiede una impresa più aperta, collaborativa e adattiva per la generazione di valore in azienda. Per questo mi piace tornare, più che ai principi manageriali, alle sfide che Hamel pone al management, ovvero:
● generare idee non convenzionali e quindi creare un ambiente aziendale in cui queste idee possano essere espresse e ascoltate (la democrazia delle idee)
● trasformare i dipendenti ordinari in straordinari innovatori ("amplificare" l'immaginazione umana)
● mettere in atto un processo decisionale guidato più direttamente e flessibilmente dalle esigenze del mercato che da logiche gerarchiche e burocratiche di allocazione delle risorse (riallocare le risorse in modo dinamico)
● migliorare l'efficacia e l'efficienza raccogliendo i benefici di un ambiente aperto e collaborativo (aggregare la saggezza collettiva).
Per vincere queste sfide è decisiva l''installazione di "tecnologia sociale" che produce apertura e collaborazione, ma che ha bisogno a sua volta di apertura e collaborazione per realizzare il suo valore aggiunto (effetti di rete).
Minghetti: Siamo dunque d'accordo che per passare ad un nuovo modello organizzativo 2.0 è indispensabile il rinnovamento radicale degli stili gestionali, in particolare delle risorse umane. Solo così si può ottenere quella apertura e quella collaborazione basata su trasparenza e fiducia indispensabile ai processi di co-creazione del valore. Tuttavia i responsabili delle risorse umane sono spesso indicati come i più ostili a questo rinnovamento. E 'vero? E perché?
de Baillon: Questo dovrebbe essere chiesto ad un dirigente HR :). Certo è che passare ad un'organizzazione 2,0 implica fare affidamento su una miriade di soft skills, nuove e difficili da definire e da quantificare. Inoltre, il concetto di prestazione non è più focalizzato sull'individuo, ma ha una dimensione collettiva, che è difficile da valutare obiettivamente e quantificare.
Negelmann: Aggiungerei anche il fatto che la funzione HR è in crisi da molto tempo, da ben prima che emergesse la sfida "social". La funzione HR è già stata coinvolta in molti approcci tecnologici finalizzati a far avanzare l'impresa verso un assetto più collaborativo e flessibile (penso allo Human Capital Management, all' E-Learning, ai sistemi di Groupware), ma non è riuscita a raggiungere i risultati promessi. La ragione di fondo è che in buona misura la tecnologia sociale porta alla distruzione della funzione HR così come tradizionalmente si è configurata in termini di potere interno. Facciamo un esempio. Lo sviluppo di social network comporta di necessità una completa trasparenza sulle competenze e sulle capacità interne all'azienda: a questo punto non ho più bisogno di passare attraverso la "certificazione" HR per creare il mio prossimo team di progetto, poichè è sufficiente interrogare la tag cloud delle competenze presenti in azienda per identificare la persona giusta. In definitiva l'introduzione di tecnologia sociale rende necessaria la ridefinizione dello scopo stesso della funzione HR e questa necessità è sentita come terribilmente minacciosa.
de Baillon: E' vero, gli esempi possibili sono molto numerosi. La comunicazione interna ad esempio diviene comunicazione "sociale", fondata sulla trasparenza, sulla capacità di condividere valori e di raccontare ciò che sta accadendo durante il viaggio che parte dalla organizzazione tradizionale e punta alle nuove frontiere della organizzazione 2.0, compresi tutti gli inevitabili incidenti di percorso. Infine sociale, come pure informale, diviene l'apprendimento, processo essenziale per aiutare a costruire questa narrazione e per costruire una comprensione collettiva e condivisa di ciò che funziona e cosa no. Tutto questo comporta un enorme cambiamento di metodi e processi di lavoro in ambito HR che può essere difficile da accettare.
Minghetti: Quale potrebbe essere allora il ROI di una Direzione Risorse Umane 2.0?
Qual è il ROI attuale di una funzione HR? In buona misura si basa sulla valutazione della formazione. Ma così i criteri presi in considerazione si riferiscono ad un appuntamento fisso (la formazione) e alla successiva valutazione. Nel contesto del social learning, basato su un flusso di collaborazione, questo approccio non è utilizzabile, l'apprendimento avviene in modo continuo e collaborativo da parte dei "peer" (apprendimento sociale), generando sempre nuove capacità di autosviluppo e di condivisione delle conoscenze che si manifestano ogni giorno nel corso del lavoro stesso.
Questo non vuol dire che non c'è ROI in una organizzazione 2.0, ma che i criteri usati oggi dalla maggior parte delle Direzioni HR per misurare semplicemente non si applicano. Abbiamo bisogno di nuovi modelli. Dan Pontrefact, per esempio, sta lavorando su un modello di valutazione chiamato RPE "ritorno sulle prestazioni e l'impegno", che tiene conto del contributo individuale rispetto agli output che scaturiscono dal lavoro collaborativo di una community.
Negelmann: Sì, per definire un possibile ROI di una Direzione HR 2.0 occorre innanzitutto "smontare" la funzione così come adesso è e ripensarne completamente la natura e gli obiettivi, operazione che come abbiamo detto le Direzione HR sono ben lontane dal cominciare ad intraprendere.
Quando lo faranno, si renderanno che un ripensamento delle loro funzioni chiave porta in primo piano i tre seguenti scopi generali:
● Trovare il personale di maggior talento attraverso la rifocalizzazione dei processi di employer branding e di reclutamento – le pratiche sociali possono migliorare sia l'employer branding, sia il processo di assunzione. L'obiettivo fondamentale è di avere collaboratori che, aderendo alla visione sociale dell'impresa, desiderino e siano in grado di promuovere l'impresa all'interno delle loro reti sociali personali esterne e di rendere accessibili le loro capacità e competenze con maggiore precisione attraverso l'attività di monitoraggio e di tagging sui social network interni. Questo supporta la reputation del brand all'esterno e determina una migliore performance nei processi di lavoro all'interno. In generale, con questo approccio si aumenta il coinvolgimento dell'individuo nel processo partecipativo di co-creazione di valore.
● Contribuire a dotare le risorse umane delle giuste capacità e competenze attraverso la formazione e lo sviluppo – si tratta di ripensare radicalmente le attività di comunicazione e di learning, attivando processi informali che consentano la diffusione delle conoscenze a tutti i livelli e la creazione e la condivisione partecipata della documentazione. In sintesi si tratta di ricostruire i processi di knowledge management in chiave 2.0, con il vantaggio di un enorme abbattimento dei costi e aumento dell'efficacia, ma con lo svantaggio, per la cultura HR dominante, di radicarli in un contesto sociale improntato a fiducia, trasparenza, libertà di pensiero.
● Allineare lo sviluppo del talento individuale alla cultura aziendale – lo scopo ultimo ma non meno importante della funzione HR è quello di costruire la coesione della comunità aziendale. Questo significa aumentare le connessioni online e offline all'interno della società, rendere trasparenti le attività di business, supportare un feeling collaborativo fra il personale, sviluppare una cultura più "empatica" all'interno della società. Tutto questo è evedentemente incompatibile con il modello "Comando e controllo" attualmente dominante.
Minghetti: Mi sembra che le vostre analisi circa le possibili aree di intervento coincidano in buona misura con quelle dello Humanistic Management 2.0. In conclusione, c'è qualche esempio positivo di trasformazione 2.0 della funzione HR, qualche case history di successo?
Negelmann: Se non prendiamo in considerazione casi di società come IBM o Cisco, che hanno sviluppato delle pratiche in questo campo per scopi prevalentemente commerciali, è difficile trovare delle storie di successo perfettamente compiute. Tuttavia so che realtà come Deutsche Telekom, Continental AG, Robert Bosch ma anche St. Germain o Alcatel-Lucent, stanno portando avanti progetti pilota supportati fortemente dalle rispettive funzioni HR. In generale sono convinto che nei prossimi 12 mesi molte altre aziende si muoveranno in questa direzione.