Amleto e la verità dei fatti – Alice annotata 22c

Mi piace iniziare questa nuova tappa del nostro percorso, citando il commento di Claudia Consolini, una delle più attente partecipanti al progetto Alice Postmoderna, al post della settimana scorsa, I nostalgici del pensiero forte – Alice annotata 22b:

“Dopo trent’anni dalla pubblicazione del Il pensiero debole ritorna più che mai l’interrogativo posto dal filosofo Gianni Vattimo che sconvolse all’epoca il mondo della cultura (e riferito alla società di massa che si stava, di fatto, trasformando in una civiltà dei media dominata dall’immagine): se davvero il mondo immaginario dominato dai media fosse un vuoto fantasma, o se invece non si trattasse di un universo che possedeva in sé impreviste chances di emancipazione. Se non si trattasse di una cultura che invece consentiva davvero di realizzare il sogno illuminista di un mondo pluralista, dove tutte le singole individualità potevano essere considerate e riconosciute nella loro peculiarità… Oggi Vattimo critica le posizioni del “nuovo realismo” e sostiene che “i realisti credono che ci sia un’unica realtà. Il valore della tecnologia (alleata del pensiero debole) consiste nel modificarla”. Ed ancora per Vattimo: “Compito della tecnologia è alleggerire le persone dal peso della realtà e favorire la spiritualizzazione dell’informazione”.  Web 2.0 e social networking sono, forse, la realizzazione del sogno postmoderno?”.

Mi sembra una intuizione che va nella giusta direzione. Vi sono fenomeni emergenti assai significativi. Mi riferisco non solo al tagging (cfr. Il tagging come produzione collettiva di senso- Alice annotata 21b)  o alla forza emancipativa dei social network, di cui abbiamo già parlato la volta scorsa,  ma anche al boom del cosiddetto storytelling digitale, che come è ben sintetizzato nel post Storytelling: quanto è antico, quanto è diverso, quanto è nuovo si può declinare in tante forme: politica, economica, sociale.  I successi di piattaforme come Twitter stories, Storify, Pinterest stanno lì ad indicare che la costruzione collettiva di significato sociale è non solo possibile, ma rappresenta una esigenza sempre più sentita. E questo ha una profonda ricaduta sulla trasformazione dei modelli di management tradizionali verso i nuovi confini dell’Enterprise 2.0 che molto semplicemente sono ad esempio così descritti in post pubblicato su Il mestiere di scrivere: “C’è un’azienda ufficiale, che si esprime attraverso il sito, le brochure, le mission, le dichiarazioni del top management, il bilancio, gli organigrammi, i comunicati stampa. E c’è un’azienda “nella testa delle persone” che vi lavorano, fatta di esperienze individuali, di storie personali, di sentimenti, di relazioni, un’azienda che si esprime soprattutto attraverso il racconto”. Non si possono affrontare grandi progetti di cambiamento, di rebranding, di comunicazione interna ed esterna senza ascoltare queste due voci, senza confrontare questi due mondi, cercando di capirli entrambi. Quando l’azienda non segue il management, quando la comunicazione non funziona, quando l’intranet non la guarda e non la legge nessuno, non diciamo sempre che è un “problema di persone, di mentalità”? Eppure quasi mai i consulenti, nello stendere i loro piani, si preoccupano di capire cosa c’è nella testa della gente, cosa pensano, quale sia la loro immagine dell’azienda e quale la loro relazione con essa.”

Esiste tutto un mondo interiore impermanente, fluido, in costante mutazione che non può essere rinchiuso nel recinto  delle “iscrizioni”, dei “dati”,  dei “fatti”, come vorrebbero i nuovi realisti capeggiati da Maurizio Ferraris.  Stiamo parlando del “mondo dei plena” di husserliana memoria. Meglio ancora,  dello spazio esistente fra il mondo dei “granelli di sabbia” descritto in Vista con granello di sabbia da Wislawa Szymborska, ovvero degli oggetti (cfr Nulla due volte pp. 199-204) e quello che nel Manifesto dello Humanistic Management definiamo il mondo vitale:  lo spazio dell’interpretazione, lo spazio abitato da quella che Ugo Volli ha definito l’”eccezione umana”. Come ha osservato Piero Trupia sul numero 13 di personae, “la nostra conoscenza procede per concettualizzazione delle cose del mondo che in sé sono plena e non concetti. Il concetto astrae, semplifica e lascia fuori pezzi di realtà”. Ma questi pezzi a volte ritornano, direbbe Stephen King, ad inquietare non solo i sonni ma anche le veglie di coloro che, illudendosi di ridurre la realtà  ad un meccanismo semplice da manovrare, si ritrovano ad essere stritolati in un incubo di cui non comprendono le logiche, poiché  estranee alla “one best way”.

E’ curioso che Ferraris in Anima e iPad chiami a sostegno della propria tesi proprio Amleto, personaggio fondativo della riflessione sullo Humanistic Management 2.0: in particolare l’Amleto morente delle battute finali della tragedia. “Conoscete la scena – scrive Ferraris: c’è Amleto che sta per morire, avvelenato. Orazio, lo scholar, il filosofo, vorrebbe seguirlo nel viaggio, e vorrebbe avvelenarsi anche lui. Ma Amleto lo prega di non farlo, e questo per un solo motivo: perché sopravviva a raccontare la storia, per come è andata veramente, perché non prevalga la versione falsa e adulterata, perché si abbiano i fatti, non solo le interpretazioni.”[i] Ferraris insomma assume che “la verità dei fatti” sia quella di Amleto.

Ma chi lo dice? Ad Orazio viene esattamente assegnato il compito che i vincitori di ogni tempo danno agli intellettuali: deve consegnare la “verità storica” (quella del vincente Amleto) ai posteri. Il perdente Claudio racconterebbe una storia ben diversa e così ciascuno dei protagonisti e dei comprimari, come ha dimostrato brillantemente Tom Stoppard in Rosenkrantz e Guilderstern  sono morti. Ancora diverso sarebbe l’universo di Amleto se raccontato dal punto di vista di Batman (come è accaduto, così come per quello di Alice).  O ancora, se avesse ragione Ferraris, dovremmo dire che nel Don Chischiotte  “fatti” sono i giganti visti dal protagonista (e narratore) piuttosto che i mulini a vento percepiti  da tutti gli altri.

Ma c’è di più. Ferraris dichiara nelle prime pagine del suo libro di ispirarsi alle Meditazioni cartesiane. Ebbene la ragione fondamentale per cui Amleto esita per tutta la tragedia ad andare a fondo con la vendetta, risiede nel timore che il fantasma di Amleto senior, che gli ha rivelato “la verità dei fatti”, sia una illusione del Diavolo che vuole condurlo alla perdizione. Lo rivela al termine del Secondo Atto:

“The spirit that I have seen

May be the devil: and the devil hath power

To assume a pleasing shape; yea, and perhaps

Out of my weakness and my melancholy,

As he is very potent with such spirits,

Abuses me to damn me”.

Esattamente lo stesso problema che ha Cartesio con la realtà del suo cogito,  come Ferraris dovrebbe ben sapere.  Il diabolico trucco di questo spirito maligno consisterebbe nell’aver creato una creatura che alberga in sé una nozione di verità, ma solo per conferirle facoltà tali da non riuscire mai, attraverso di esse, a raggiungere alcuna verità e a esser certa di nulla. Cartesio risolve il problema facendo appello dogmaticamente all’esistenza “di fatto” di un Dio garante del reale. Una assunzione però del tutto arbitraria, che filosoficamente ha la medesima dignità della negazione di quella stessa assunzione.

E non si tratta di mere disquisizioni teoriche, filosofiche o letterarie. Peter Drucker, certamente il più importante studioso di management del secolo scorso, nel suo volume del 1974  Management: Tasks, Responsibilities, Practices, scrive:

“Most books on decision-making tell the reader: First find the facts. But executives who make effective decisions know that one does not start with facts. One starts with opinions…The understanding that underlies the right decision grows out of the clash and conflict of divergent opinions and out of serious consideration of competing alternatives. To get the facts first is impossible. There are no facts unless one has a criterion of relevance.”[ii]

Drucker argomenta questa tesi in molti modi:

1 Se non ci siamo formati una nostra idea del problema, noi semplicemente troveremo “fatti” che confermano l’interpretazione dominante: “No one has ever failed to find the facts they are looking for.”

2 Una interpretazione originale funziona come una ipotesi da verificare. Solo quando avremo verificato la validità di questa ipotesi, potremo prendere decisioni utili rispetto ai “fatti” in discussione. “The effective person…insists that people who voice an opinion also take responsibility for defining what factual findings can be expected and should be looked for.

3 Le decisioni, anche quelle manageriali, non sono scelte assolute su ciò che è giusto o sbagliato. Spesso il manager si trova di fronte  “a choice between two courses of action neither of which is probably more right than the other.” Perciò è importante comprendere pienamente tutte le possibili interpretazioni alternative di un “fatto”.

4 Le decisioni cruciali per il futuro di una azienda possono richiedere l’adozione di nuovi criteri di valutazione. “Whenever one analyzes the way a truly great, a truly right, decision has been reached, one finds that a great deal of work and thought went into finding the appropriate measurement. The effective decision-maker assumes that the traditional measurement is not the right measurement…The traditional measurement reflects yesterday’s decision. That there is a need for a new one normally indicates that the measure is no longer relevant.” Questa osservazione è tanto più utile oggi, in tempi in cui i tempi del cambiamento sono velocissimi e richiedono la capacità di adottare punti di vista sempre nuovi.

Insomma non c’è niente da fare. Come dice Gabriel Archer ne La Mente InVisibile: “I fatti possono, tutt’al più, essere sintomi, tentativi, esperimenti. I fatti propriamente sono arte-fatti. Dare consapevolezza della polivocità, dell’interpretabilità dei fatti è un fine decisivo di ogni uomo di buona volontà”. [iii]  

Alice annotata  22c – continua

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[i] Cit. pag. 89.

[ii] Pag.379, sgg. Digital edition 2001.

[iii] Cit., Episodio 120/132