Cerchiamo di capire meglio quali sono le ragioni dei nostalgici del pensiero forte, analizzando un articolo di Maurizio Ferraris apparso su La Repubblica nell’agosto del 2011, che ha costituito la base di una serie di altri articoli pubblicati successivamente sullo stesso giornale[i], ma anche altrove (ad esempio su Micromega [ii]) per sfociare infine nel testo definitivo del Manifesto del nuovo realismo pubblicato da Laterza poche settimane fa.
Il primo argomento è di tipo politico e si compone di due parti. Da un lato, Ferraris si scaglia contro “l’avvento dei populismi mediatici – una circostanza tutt’altro che puramente immaginaria – che ha fornito l’esempio di un addio alla realtà per niente emancipativo”.
Nell’introduzione del Manifesto lo spiega ancor più chiaramente: “Quello che chiamo nuovo realismo è anzitutto la presa d’atto di una svolta. L’esperienza storica dei populismi mediatici, delle guerre post 11 settembre e della recente crisi economica ha portato una pesantissima smentita di quelli che sono a mio avviso i due dogmi del postmoderno: che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, e che la verità sia una nozione inutile perché la solidarietà è più importante dell’oggettività. Le necessità reali, le vite e le morti reali, che non sopportano di essere ridotte ad interpretazioni, hanno fatto valere i loro diritti, confermando l’idea che il realismo (così come il suo contrario), possieda delle implicazioni non semplicemente conoscitive, ma etiche e politiche.”[iii]
Ci si potrebbe domandare dove Ferraris fosse nelle settimane precedenti alla pubblicazione di questo articolo, mentre grazie ai social network (che forse vorrebbe vietare come il conservatore Cameron in Inghilterra, gli scientific manager che detengono il potere in Cina e i dittatori di tutto il mondo) fiorivano le primavere arabe, si vincevano 4 referendum fondamentali per la salute e l’ambiente, un outsider come Pisapia riusciva a scalzare la Moratti. Se non fosse che lo stesso Ferraris il 13 agosto pubblicava un bell’articolo su Facebook, Twitter e Google + dove, sia pure sempre usando un linguaggio in negativo, riconosceva a Twitter “le sue potenzialità di politica antagonistica” e addirittura a Google + la capacità di scatenare “una guerra mondiale”. Che poi, come ha sostenuto anche Augè, occorra distinguere fra gli avatar che organizzano le manifestazioni e coloro che fisicamente vi partecipano non c’è dubbio, ma non vedo come si possa contestare la realissima forza emancipativa che il web 2.0 ha saputo sprigionare. Lo ha dimostrato fra i tanti il caso dei “Pirati” tedeschi, che hanno avuto un grande successo elettorale nell’autunno del 2011, grazie alla loro proposta web-based: “rifondare la politica rivitalizzando la partecipazione: un dialogo interattivo costante con elettori e cittadini: blog, siti e social forum per ascoltare la base, gli elettori, il feedback della vita reale”.[iv]
Diverso invece il discorso relativo “all’uso spregiudicato della verità come costruzione ideologica e imperiale da parte dell’amministrazione Bush, che ha scatenato una guerra sulla base di finte prove dell’esistenza di armi di distruzione di massa”, e alla strumentalizzazione da parte di telegiornali e programmi politici per contrabbandare interpretazioni della verità che nulla aveva a che fare con l’andamento effettivo ad esempio della crisi economica. Su questo sono d’accordissimo e ho scritto un pezzo ne Le Aziende InVisibili che denunciava proprio la nascita dello storytelling in politica come pratica derivata dall’organizational storytelling, di stampo eminentemente tayloristico. In questo episodio la Psicologa Sintetica spiega a Deckard la strategia impiegata dalla Corporation per imporre il proprio Pensiero Unico nel corso della storia. Ecco uno stralcio della loro conversazione:
“Era rimasto ancora un problema da risolvere: l’inclinazione umana alla narrazione, a rivivere continuamente la storia propria e della comunità in cui vive, fuori dai canali ufficiali. Nonostante l’applicazione di procedure sempre più restrittive, le contro-storie aziendali venivano raccontate alla macchinetta del caffè, in mensa, sui blog, ovunque. Fu a quel punto che la Corporation decise di introdurre l’Organizational Storytelling, che mira a riorganizzare, in maniera politicamente corretta, la storia e i suoi racconti, al fine di forgiare i comportamenti sociali ponendo al loro centro una nuova figura di manager: il mago, l’astrologo, il sacerdote, il rappresentante autorizzato dall’impresa alla globalizzazione dell’emozione pubblica, indispensabile al mercato unico”.
“L’Astrogramma. Il Libro dei Mutamenti aziendali, gli Standard hqle. E tutto il resto dell’armamentario manageriale che ho dovuto imparare ad usare qui alla Corporation. Adesso capisco. È tutto coerente alla celebrazione dell’onniscenza del Top Manager”. “Non solo. Come lei sa bene, Deckard, o almeno dovrebbe saper bene, intorno a questa figura mitica è stato predisposto un set di fiabe d’impresa che decanta le virtù del ‘piccolo popolo’ degli addetti al back-office e che esalta il popolo dei giganti, minaccioso ma semplicione, presidio del front-office; sovrabbondano storie di fanciulle che, grazie ai sortilegi del Diversity Management, trovano ricompensate le loro competenze dopo una serie di sventure; ma ci sono anche tanti baldi eroi maschili che partiti da un’umile condizione (operaio, autista, impiegato) sanno arrivare alle posizioni più significative e importanti… La creazione di questi archetipi non fu però arbitraria, ma frutto di un lavoro scientifico: una équipe di antropologi ha ascoltato centinaia e centinaia di racconti, che i dipendenti si tramandavano di generazione in generazione, dalla viva voce degli uomini e delle donne che li narravano. Sono stati quindi registrati, comparati e, attraverso un programma software appositamente realizzato, per ogni archetipo è stata scelta la versione più coerente con tutte le innumerevoli varianti collazionate nelle infinite società della Corporation. In altre parole, l’Organizational Storytelling è una pratica di replicazione e rappresentazione digitale di una unica realtà che si impone uguale per tutti”.
Ero agghiacciato, ma il peggio doveva ancora venire. “Non ci siamo fermati qui. Data la pericolosità della tendenza umana alla narrazione, abbiamo fatto in modo che l’Organizational Storytelling divenisse il paradigma di ogni forma di comunicazione. Si ricorderà che, alcune settimane prima delle penultime elezioni presidenziali, le quotazioni dell’inquilino conservatore della Casa Bianca crollarono, a causa di alcuni errori madornali nella conduzione della guerra. Ma, da quel momento, la frequenza della parola story nei suoi discorsi si moltiplicò, sotto l’influenza dei consulenti in management che lo circondano (un team di cui fanno parte i più autorevoli esponenti della prestigiosa società tedesca Grimm’s Brothers, i revisori della Andersen e, per la sezione home video, gli americani della Walt Disney). Pochi giorni prima delle votazioni, dichiarò: ‘Ogni persona ha la sua propria storia che è unica, ma tutte queste storie raccontano quel che la Nazione può e deve essere’. Poi concluse dicendo: ‘Tutti siamo parte di una lunga storia, una storia che portiamo avanti, ma di cui non vedremo la fine. La storia continua’. In questo discorso, durato solo pochi minuti, aveva utilizzato la parola story non meno di dieci volte! E fu grazie alla strategia ispirata allo storytelling management che fu eletto per la seconda volta, rovesciando tutti i pronostici”[v].
Con le modalità fantastiche proprie del romanzo collettivo, cercavo insomma di mettere in luce come le “favole” aziendali e politiche della modernità solida svolgano le stesse funzioni di conservazione e diffusione del Pensiero Unico che svolgevano le favole tradizionali al tempo di Alice.[vi] Ma non si può fare, come mi sembra faccia Ferraris, di tutta l’erba un fascio: la generazione di significati alternativi dal basso grazie alla connettività multimediale e il social networking è cosa radicalmente diversa dalla strumentalizzazione di strumenti di comunicazione uno-molti quali la televisione che i Padroni del Linguaggio della situazione usano per imporre il loro Pensiero come Unico (così vorrebbe anche la Psicologa Sintetica, che nel brano precedente a quello citato spiega l’avvento dei social network come una Astuzia della Ragione corporate). “Realytismo”, lo chiama Ferraris nel primo capitolo del Manifesto, definendolo “l’attacco postmoderno alla realtà”. E’ proprio il contrario: come abbiamo detto fin dalla prima Nota (pubblicata in tempi non sospetti, ovvero quasi un anno prima del Manifesto del nuovo realismo, nel luglio 2011), il “reality show” come estrema espressione del “populismo mediatico” (vedi anche: L’Identità Molteplice, Parte seconda (Alice annotata – 8b) è l’ultima frontiera di quella che Bauman chiama la “modernità solida”. La ferrea volontà di instillare nella gente “la convinzione che si tratti di un sistema senza alternative”[vii], del tutto aliena allo spirito dei postmoderni (o almeno della nostra Alice Postmoderna), è viceversa propria di tutte le dittature moderne e di quella particolare forma di “Pensiero Unico” che è il modernissimo Scientific Management.
Alice annotata 22b – continua
[i] IL RITORNO AL PENSIERO FORTE, 08 agosto 2011 — pagina 36-37 sezione: CULTURA
[iii] Ferraris, M., Manifesto del nuovo realismo, Laterza, 2012, p xi.
[iv] http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/09/23/pirati-in-parlamento.html
[v] Le Aziende InVisibili, pp. 372 e sgg.
[vi] cfr. su questo Celati, p.38.
[vii] Ferraris, cit. p. 6.