La social organization – parte quinta

The social organizationRiassunto delle puntate precedenti

Continuiamo la lettura di The social organization, il volume di Bradley e McDonald che ci spiega come utilizzare i social media per valorizzare l’intelligenza collettiva di tutti i nostri stakeholder, interni ed esterni. Nelle settimane scorse abbiamo dapprima individuato nella “mass collaboration” il fondamento della social organization e abbiamo descritto  i principi chiave del suo funzionamento (vedi parte prima); quindi sono state  esaminate le caratteristiche della visione e della strategia “social” (parte seconda) e nella terza parte abbiamo analizzato il modello delle “6 F”, utile a definire il posizionamento della nostra organizzazione nella linea ideale che la porta dall’essere una mera “organizzazione sociale” verso il traguardo della “social” organization (che nei termini dello Humanistic Management definiamo “impresa conviviale”).  La volta scorsa (quarta parte) abbiamo cominciato a definire le caratteristiche della leadership 2.0.

Cosa significa “guidare dal centro”

Nel post precedente avevamo cominciato ad esaminare il significato che assume la leadership nel contesto di una social organization: “guidare dal centro”. Abbiamo anche detto che in sostanza si tratta di  partecipare al lavoro, sostenere la focalizzazione della visione strategica e valorizzare la performance della community.

Approfondiamo adesso questo tema, perchè proprio la scarsa propensione/capacità dei manager a modificare radicalmente il proprio approccio è una delle ragioni fondamentali che conducono al fallimento delle iniziative volte alla trasformazione dell’organizzazione tradizionale in una social organization.

E’ importante dunque che i manager comprendano che, in termini operativi,  “guidare dal centro significa”:

1 Lasciare che l’ownership del progetto passi direttamente alla community stessa

2 Incoraggiare la natura emergente della community

3 Mantenere i collegamenti fra la community e l’organizzazione

4 Garantire la trasparenza delle informazioni che circolano attraverso la community.

Soffermiamoci sui primi due punti (nel prossimo post analizzeremo il terzo e il quarto).

Lasciare che la community assuma l’ownership

Attraverso la definizione della value proposition e la gestione della fase di avvio della community, i manager esercitano un significativo controllo sulle sue attività. Ne convocano i potenziali membri, identificano le opportunità di sviluppo, creano la “purpose roadmap” per trasformare la visione in risultati concreti, connettono il lavoro della community con le funzioni e i processi aziendali. Ma non appena la community ha raggiunto la massa critica, il ruolo dei manager cambia.

L’ownership delle attività – il potere di decidere cosa fare e come farlo – deve appartenere alla community. Senza un gruppo di persone che abbiano un interesse condiviso ad agire autonomamente, non si può formare una vera community in grado di auto-sostenersi. Ciò pone ai manager due obiettivi: 1) consentire che gradualmente il controllo passi nelle mani della community; 2) creare il framework organizzativo in cui la community possa svolgere il suo lavoro.

Fare sì che la community assuma l’ownership è essenziale affinchè i suoi membri possano collaborare senza influenze esterne. In questa fase quindi i manager devono limitare la propria partecipazione diretta al lavoro. Il che non significa che debbano ignorare le discussioni più importanti, ma che dovrebbero sforzarsi soprattutto di ascoltare e capire le necessità della community. Sotto il profilo organizzativo, dovrebbero fare sì che i comportamenti più collaborativi vangano premiati ed in generale che la policy che presiede alle attività sia rispettata e se necessario modificata per migliorare la produttività del lavoro collettivo.

Consentire alla community di evolvere per realizzare la value proposition

Ogni community ha la necessità di sentirsi responsabile  della realizzazione degli obiettivi che si è data. Ma diversamente da quanto accade nelle organizzazioni tradizionali, questa responsabilità viene accettata in una social organization solo nella misura in cui la community è libera di auto-determinarsi. Il che significa: poter modificare la proposta di valore iniziale in corso d’opera, rivedere la roadmap degli obiettivi e  delle scadenze, ridefinire le priorità  e richiedere nuovi strumenti di lavoro. L’alternativa, ovvero scoraggiare le persone da qualsiasi deviazione dal piano originario, sottrarrebbe energia e creatività dal lavoro collaborativo, farebbe calare la partecipazione ed in ultima analisi allontanerebbe i membri.

I manager potrebbero trovare questa situazione personalmente molto sfidante. Favorire l’autodeterminazione e l’evoluzione della community  è difficile quando si è abituati a dirigere i team secondo i canoni del modello “comando e controllo” tipico dello scientific management. Tanto più che i manager restano comunque in ultima analisi direttamente responsabili dei risulti finali. Ma è come lavorare con un giovane ad alto potenziale: occorre dargli supporto e fornirgli le risorse di cui ha bisogno per agire, rinunciando a stabilire puntualmente come deve procedere, In altre parole, si tratta di saper delegare, di far lavorare non per compiti ma per obiettivi un team di persone.

Tutto questo non esclude in maniera assoluta la partecipazione dei manager al lavoro della community. Ma partecipare non significa dominare. Per il manager deve piuttosto significare la possibilità di offrire un modello di comportamento positivo, proponendo ad esempio commenti, link e votazioni per incoraggiare le discussioni. Il manager può usare il suo network relazionale per invitare terze parti che possono offrire contributi utili al lavoro della community, incoraggiare le persone che restano in silenzio, monitarare le discussioni affinché eventuali divergenze che rischiano di creare  delle spaccature interne al gruppo vengano riportate nell’alveo di una sistema di presa delle decisioni condiviso.

Ma naturalmente il manager deve stare attento. I suoi contributi possono facilmente essere condivisi solo per l’autorità del ruolo che occupa nell’organizzazione. I suoi suggerimenti potrebbero venire presi per ordini, le personali preferenze per direttive aziendali, le opinioni come parole definitive. Se non si è consapevoli di ciò, di fatto si uccide la libera espressione di idee e la creatività del gruppo, la sua potenziale forza di innovazione. Se si decide di partecipare direttamente alle discussioni occorre dunque prestare una grande attenzione a questi aspetti. In questo senso la lettura de Le Aziende InVisibili può forse costituire un utile training per il manager che voglia maturare la necessaria sensibilità verso elementi di relazione “invisibili” che però determinano in maniera decisiva i risultati  “visibili” delle community che gli sono affidate.

Dare alla community una prospettiva organizzativa

Le community operano all’interno del più largo contesto dell’intera organizzazione. I loro obiettivi e risultati rappresentano una parte degli sforzi dell’impresa. Tuttavia può capitare che una community sviluppi un interesse specifico auto-centrato che la allonatana dal resto dell’azienda. Quando questo succede, la community perde la sua capacità di innovare, almeno in una direzione utile per perseguire i fini generali dell’organizzazione. Compito specifico del manager è evitare questo pericolo riportando costantemente l’attenzione della community sulla necessità di ottenere risultati coerenti con quelli attesi dall’impresa nel suo complesso.

Si può perseguire qusto obiettivo in molti modi, come ad esempio:

porre domande relative alle implicazioni delle decisioni prese dalla community rispetto all’andamento dell’azienda;
aggiungere informazioni che consentano alla community di allargare la sua prospettiva a quella dei clienti, dei fornitori, di altri stakeholder;
indicare le potenziali implicazioni negative sui risultati aziendali di determinate azioni o comportamenti della community.

Un altro rischio corso da una community è che il suo naturale sviluppo non produca i cambiamenti sperati. Quando questo avviene i manager devono intervenire, affinchè la community si renda conta della scarsa incisività della sua azione e prenda le necessarie contromisure. Se la community non risponde alle sollecitazioni, il manager può arrivare a rivedere  d’autorità la stessa value proposition della community. E se anche questa azione non dovesse portare a nulla, dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di sospendere gli investimenti in quella direzione. Ma se le cose prendono questa piega occorre operare con molta attenzione: una azione drastica di rottura potrebbe provocare effetti negativi sia all’interno sia all’esterno dell’organizzazione.

Incoraggiare la natura emergente della community

L’emergenza dal basso è uno dei sei principi chiave del  funzionamento della social organization (vedi parte prima) e deriva dalle interazioni collettive. Tanto più i membri della community partecipano volontariamente, interagiscono, ottengono risultati di livello inferiore e prendono decisioni autonome, tanto più emergerà il raggiungimento degli obiettivi. Il manager deve quindi incoraggiare prassi e comportamenti che favoriscano tale emergenza e combattere quelli che la ostacolano.

 Focalizzarsi sui risultati, non sui mezzi con cui si ottengono i risultati

La “mass collaboration” è differente da qualsiasi altro modo di lavorare. Per la sua specifica natura, nessuno può prevedere o prescrivere i mezzi con cui la community sceglierà di perseguire i suoi scopi. Perciò nessuno può gestire questo aspetto, ad esempio con un dettagliato piano d’azione o un set di regole e procedure. Solo i risultati ottenuti potranno essere gestiti in questo modo.

I manager devono quindi cedere il controllo per ottenere la creatività della community ed in ultima istanza ottenere risultati. La maggior parte dei manager sosterrà di essere più concentrata sui progressi del lavoro che non sulla conformità a piani o procedure predeterminate. Ma la realtà è che moltissimi di loro fronteggiano l’incertezza attraverso un controllo minuzioso effettuato quotidianamente. Questo può anche funzionare in una organizzazione tradizionale ma è letale in una social organization. I membri di una community hanno il bisogno di scegliere come produrre i propri risultati e di essere liberi di adattare i mezzi scelti mano a mano che il lavoro procede.

Salvaguardare la comunicazione collaborativa

I conflitti all’interno di una community sono inevitabili – e necessari – per confrontare punti di vista diversi e spesso opposti. Nella maggior parte dei casi, i membri sono in grado di regolare i propri comportamenti e quelli degli altri. Come abbiamo visto anche nel quadro del Progetto Alice Postmoderna, fissare delle regole di conversazione è un problema tipico della social collaboration (cfr.: La conversazione in Rete: fra Regole, Netiquette, Policy ed Emoticon (Alice annotata 19a)La Buona Educazione nell’era del Societing – Alice annotata 19b). Nel caso delle community aziendali, tuttavia, diventa particolarmente importante evitare che sorgano problemi legati ad approcci unicamente negativi, attacchi personali, partigianerie, eccetera. Il management ha qui un ruolo ben chiaro: deve operare per garantire il benessere dei membri della community, che devono sentirsi a loro agio nella libera espressione di idee e pensieri costruttivi. L’obiettivo del manager quindi non è evitare il conflitto, che anzi, ripetiamolo, è per molti versi necessario, ma quel tipo particolare di conflitto che tende ad essere puramente distruttivo e quindi disfunzionale al progresso del lavoro collaborativo.

A questo fine, il lavoro del manager consiste nel guidare le interazioni della community verso comportamenti costruttivi. La community definisce il tono e i contenuti delle conversazioni, ma il manager deve assicurare il rispetto delle regole conversazionali ad esempio:

ricordando quando necessario le linee guida che regolano la vita della community;

insistendo perchè le discussioni siano sviluppate a partire da dati e fatti concreti;

incoraggiando l’analisi (“Perchè pensi questo?”) e scoraggiando l’assunzione aproblematica di pregiudizi o punti di vista dogmatici;

proteggiando le opinioni della minoranza;

mantenendo sempre la trasparenza: deve essere sempre chiaro chi sta parlando, di cosa sta parlando e a chi si sta rivolgendo.

5. continua

 

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