Riassunto delle puntate precedenti
Riprendiamo oggi la lettura di The social organization, il volume di Bradley e MacDonald che ci spiega come utilizzare i social media per valorizzare l’intelligenza collettiva di tutti i nostri stakeholder, interni ed esterni. Nelle settimane scorse abbiamo dapprima individuato nella “mass collaboration” il fondamento della social organization e abbiamo descritto i principi chiave del suo funzionamento (vedi parte prima); quindi sono state esaminate le caratteristiche della visione e della strategia “social” (parte seconda); infine nella terza parte abbiamo analizzato il modello delle “6 F”, utile a definire il posizionamento della nostra organizzazione nella linea ideale che la porta dall'essere una mera "organizzazione sociale" verso il traguardo della “social” organization (che nei termini dello Humanistic Management definiamo “impresa conviviale”). Oggi cominciamo ad occuparci di un altro aspetto essenziale: la leadership.
Leaderless organization?
Quando si parla di organizzazioni 2.0, entra subito in crisi il concetto tradizionale di leadership basato sul modello “comando e controllo”, autoritario, top-down. In una parola, l’archetipo tramandatoci da Taylor e dallo Scientific Management. Questo significa che la social organization è, come vuole un filone di pensiero abbastanza popolare, una “leaderless organization”? La cose sono un po’ più complicate di così. Elisabetta Pasini, autrice nel 2009 di un post dal titolo I tre paradossi della leaderless organization, ha riproposto il tema anche all’interno del topic dedicato alla Leadership del nostro Delphi 2.0 La rivoluzione social e le aziende. Scrive Elisabetta: “Jason Lanier, guru di internet e dei new media, ha pubblicato qualche tempo fa un pamphlet dal titolo You Are Not a Gadget: A Manifesto che mette in guardia sulla possibile deriva del Web 2.0, lamentando l’appiattimento dei contenuti online che Google, Wikipedia e simili possono importare sulla rete, veicolando una “poltiglia di informazione amorfa” che a volte viene un po’ troppo superficialmente celebrata come “democrazia di rete”, e che rischia invece in realtà, secondo Lanier, di distruggere le idee, il dibattito e la critica.C’è un fondo di verità in queste affermazioni, o è soltanto la visione elitaria di un inguaribile spocchioso?
Il tema non è da poco e porta, io credo, a fare qualche riflessione sulla relazione tra creatività individuale, creatività collettiva e meccanismi di leadership. Le nuove forme di organizzazione che nascono nel web 2.0 sono sistemi fluidi nei quali spesso coesistono fenomeni contraddittori. C’è il rischio, come sottolinea Lanier, di andare incontro a nuove forme di conformismo che utilizzano la “mob mentality”, la cultura del linciaggio, per spegnere possibili forme di creatività individuale? Oppure siamo in presenza di un “nuovo concetto di massa” capace di bilanciare partecipazione e conformismo in maniera migliore rispetto al passato?
Da tempo mi interesso al fenomeno del carisma perché sono convinta che possa costituire oggi, tra tutte le diverse forme di esercizio dell’autorità, un’utile chiave di lettura per comprendere le complessa relazione tra leadership, autorità e autonomia all’interno di comunità senza una struttura gerarchica rigida e senza sistemi organizzati di compiti e ruoli. Per sua natura il fenomeno carismatico nasce dalla necessità del cambiamento, per sovvertire le regole di un sistema organizzato, e presuppone una dinamica evolutiva fondata sul reciproco influenzamento tra la personalità di un leader e i desideri dei suoi seguaci (E.Pasini, F.Natili, Carisma, il segreto del leader, Garzanti 2009). I diversi tipi di comunità online che si sono sviluppati negli ultimi anni nel mondo del web sono il risultato della dinamica tra gruppi di progetto attivi che ne costituiscono la forza propulsiva, e “guru” con grande capacità di influenzamento che usano competenza tecnologica e visione per aprire nuove strade e contribuiscono a svilupparle.
Un contributo interessante a questo dibattito è stato dato recentemente da Mathieu O’Neil in Cyberchiefs: Autonomy and Authority in Online Tribes, Pluto Press 2009. Esaminando quattro diverse forme di comunità on line, tra cui anche Wikipedia, O’Neil distingue tra “hacker charisma”, la credibilità personale acquisita con l’expertise tecnologica applicata a un progetto “visionario”, e “index charisma”, l’indice di attrattività che dipende dal numero di contatti e dalla crescita dei “seguaci” del progetto. Intorno alla dinamica tra questi due diversi tipi di carisma nel web 2.0 si compongono diversi tipi di organizzazione: l’hacker charisma garantisce lo sviluppo della vision intorno ad alcuni personaggi con forti doti di influenzamento, mentre l’index charisma sostiene la vitalità e la crescita della comunità. Entrambi possono avere una deriva pericolosa: l’irrigidimento della visione e l’esclusione attraverso il meccanismo “buoni/cattivi”da una parte, il blocco del mercato attraverso il formarsi di situazioni di monopolio che non permettono la crescita di incumbent dall’altro”
Una alternativa al modello riduzionistico
Lungi dall'essere "leaderless organization", le community 2.0 propongono dunque numerosi modelli di leadership. Un altro contributo interessante al nostro Delphi online sul tema della leadership è quello di Alessandro Cravera che scrive: “il concetto di leadership deve radicalmente trasformarsi. Oggi sembra che la leadership sia il fattore chiave per il successo di un’azienda. Dove ci sono grandi risultati sembra che ci siano sempre grandi leader. La leadership sembra essere il fondamento del capitalismo moderno. Inserendo la parola leadership come chiave di ricerca su Google compaiono 446 milioni di documenti, un risultato impressionante. A conferma della personalizzazione spinta della leadership, e del crescente ruolo del leader “eroe”, la parola “leader” richiama un numero maggiore di documenti, ben 943 milioni. Per dare un’idea della portata e dell’importanza assunta dal concetto di leader basta fare qualche confronto. La parola “peace” richiama 826 milioni di documenti, “nation” 792 milioni, “freedom” 648 milioni, ed “ethics” (ahimè) 179 milioni.
Da dove deriva tutta questa enfasi sulla leadership? Una delle finalità del management è sempre stata quella di affrontare la complessità attraverso la riduzione della stessa. L’assunto di base è stato più o meno il seguente: “dal momento che l’incertezza là fuori è sempre più grande, creiamo un ambiente il più possibile ordinato all’interno dell’organizzazione. In una prima fase competitiva – agli albori industriali – in cui i mercati erano in forte sviluppo e l’unico fattore di successo di un’impresa era l’efficienza, il ruolo della leadership era pressoché assente. E’ solo con le prime spinte concorrenziali dovute alla differenziazione delle esigenze dei consumatori e alle innovazioni tecnologiche, che emerge in maniera forte il ruolo centrale della leadership. Per navigare nella complessità crescente aumenta l’esigenza di avere un “comandante” che sappia riconoscere la giusta rotta e comunicarla alla truppa. Ecco che il leader non può più limitarsi a definire una volta per tutte le migliori modalità organizzative e a controllarne l’esecuzione, ma deve possedere la “vision” di lungo periodo, saper individuare le migliori strategie per l’azienda e motivare i collaboratori a seguirlo sulla strada del successo. Il leader possiede la “soluzione” alla complessità. In un ambiente incerto, manifesta solide certezze e le trasferisce ai propri sottoposti. Nasce quindi un concetto di “leadership eroica” che perdura anche oggi.
L’attuale concetto di leadership è compatibile con l’attuale contesto competitivo fortemente interconnesso e imprevedibile? Io penso di no. Modellizzare, semplificare e puntare alla riduzione di incertezza può essere molto pericoloso. In un contesto non lineare come quello attuale, è importante portare la complessità dentro l’organizzazione, complessificare quindi l’azione manageriale, moltiplicare i punti di osservazione, le esplorazioni e gli indirizzi, e non limitarsi a seguire pedissequamente la strada indicata da un leader. Il fisico e cibernetico Heinz von Forster per affrontare la complessità suggeriva di “agire sempre in maniera che il numero delle possibilità cresca”. Lungi dal ridurre le menti pensanti, occorre moltiplicarle, lungi dal scegliere un’unica via, occorre stimolare la continua e contemporanea ricerca di nuove vie, lungi dal ricercare l’omogeneità comportamentale, occorre favorire la diversità, accoglierla, integrarla, farla propria. Più che puntare all’organizzazione delle persone, occorre mirare a far emergere dinamiche di auto-organizzazione all’interno dell’impresa.
I tradizionali modelli di leadership, anche quelli più recenti ed evoluti, mettono in evidenza il ruolo “attivo” del leader nella guida dei collaboratori. La categoria del leader “laissez-faire” è giustamente associata ad un comportamento passivo, ma anche a risultati negativi da parte dei collaboratori e dell’organizzazione. Nei modelli tradizionali l’efficacia della leadership cresce proporzionalmente al grado di attivismo del leader. Questi non contemplano in alcun modo un leader con uno stile passivo che però risulta essere efficace. E’ infatti interessante notare che, in presenza di gruppi e organizzazioni efficaci anche in assenza di un leader o con un leader passivo, siamo portati a pensare che il gruppo funzioni “nonostante l’assenza o la passività della leadership”.
Adottare una prospettiva incline a favorire l’emergere di dinamiche auto-organizzative impone di superare questa convinzione diffusa e consolidata. Una leadership passiva, può avere connotati negativi, ma esistono anche casi di leadership passiva (o meglio non visibile) associati a risultati eccellenti. Mi riferisco in particolare ai casi in cui una leadership passiva rappresenta il principale “innesco” per le dinamiche di auto-organizzazione. Il “leader invisibile” – così lo potremmo definire” non è quello che adotta una logica “push” e quindi motiva i collaboratori, fornisce la direzione, dà le direttive, possiede la visione, ecc, bensì colui che crea, spesso in maniera sotterranea ed invisibile ma consapevole, le condizioni, il “contesto” per l’auto-organizzazione delle persone. Non è più un leader-semaforo, che dice agli altri cosa devono fare, quando lo devono fare e come. E’ un leader-architetto che costruisce “rotonde”, costruisce ambienti in cui possano emergere spontaneamente comportamenti e decisioni coerenti con l’evoluzione dell’impresa”.
Sensemaking e convocazione
Tornando dalla discussione teorica alla concreta quotidianità dell’operatività aziendale, ciò che occorre, sostengono in sostanza Bradley e MacDonald, è sapere “guidare dal centro”, ovvero un tipo di leadership in fondo non dissimile da quello già proposto da Kevin Kelly quando sosteneva che i manager devono imparare a “perdere il controllo, mantenendo la guida”. Si tratta di una posizione analoga a quella sostenuta dallo Humanistic Management, per la quale la possibilità di evolvere verso forme di social organization, passa anche attraverso la capacità di sviluppare una nuova forma di leadership convocativa a tutti i livelli manageriali.
Una leadership in grado di “convocare” e di rendere attivi gli interlocutori diventa ineludibile quando la conoscenza necessaria a portare le imprese verso il successo è dispersa all’interno e all’esterno delle organizzazioni. Nessun board manageriale potrà mai ottenere contestualmente successo economico e sostenibilità se continuerà ad agire autoreferenzialmente. “E’ importante la condivisione della conoscenza, come fonte di possibilità esplorabili, di cui occorre riconoscere la specificità, ossia l’esigenza di rendere dialogico, non gerarchico, non unidirezionale, il suo uso: la conoscenza non è sottoponibile a gerarchia (perché perderebbe la sua efficacia)” (Manifesto dello Management, Decima Variazione Impermanente)
Ma cosa significa tutto questo, in pratica? In termini generali, secondo Bradley e MacDonald, il manager 2.0 deve essere in grado di supportare ed aiutare i membri delle community (su cui è fondata la social organization), dando loro forti motivazioni, a generare nuove idee e a socializzarle. Potremmo dire che, nei termini della teoria del sensemaking di Weick, deve essere in grado di istituire contesti sociali che favoriscano la produzione individuale e collettiva di senso - tema che stiamo affrontando in questi giorni anche nel quadro del Progetto Alice Postmoderna: vedi gli ultimi post della serie a partire da Hard Boiled Alice (Alice annotata 15a) e Alice la sensemaker: l'identità mutante (Alice annotata 15b), fino al più recente Il Malinteso necessario per intendersi (Alice annotata 18b). Il manager 2.0 ha inoltre un importante ruolo di facilitatore, ovvero di “fluidificatore” della presa di decisioni collettiva, soprattutto quando insorgono questioni che rischiano di bloccare il processo creativo e produttivo della community.
Vi sono inoltre responsabilità specifiche. Ad esempio all’interno delle community emergeranno delle leadership fondate su competenze tecniche: coloro che le posseggono hanno un ruolo chiave nel definire strumenti di lavoro e frame concettuali di riferimento. Ci sono poi i “community sponsor”, ovvero coloro i quali, dotati di maggiori talenti in termini di “public speaking” e di abilità negoziali, rappresentano la community, esplicitando le sue esigenze e difendendo le sue decisioni, all’interno dell’organizzazione. Ma vediamo il tema in modo più articolato.
Il ruolo del management all’interno del “collaboration cycle”
In primo luogo, è importante capire quale è il ruolo fondamentale del management nel processo chiave delle social organization: il cosiddetto “collaboration cycle”, in base al quale, in assenza di una struttura gerarchica formalizzata, i membri di una community si riconoscono intorno ad una proposta di valore, cominciano a fornire idee, ricevono feedback, selezionano i contributi più significativi e li sviluppano (attraverso discussioni, domande, eccetera), fino a produrre innovazioni utili alla produzione di valore per l’organizzazione cui appartengono.
Come dicevamo, per alcuni ciò che devono fare i manager in questo processo è semplice: assolutamente nulla. Secondo questo punto di vista, senza la più completa libertà d’azione una community non può essere veramente collaborativa. Ma gli autori di The social organization la pensano diversamente. Il problema, affermano, non è “troppo management”, ma “il tipo sbagliato di management”. Si tratta quindi di capire quale è per i manager il modo corretto di essere coinvolti nel processo, sulla base di due presupposti:
1) i manager sono coloro che hanno la responsabilità del risultato finale;
2) qualsiasi gruppo ha bisogno di guida e di una qualche forma di strutturazione, per non cadere nella frammentazione e nella dissoluzione.
Inoltre, occorre ricordare sempre che qualsiasi gruppo (sia esso una Nazione o la squadra di un doppio di tennis) ha in sé contemporaneamente forze che spingono i membri a collaborare (prima fra tutte, una proposta di valore condivisa) ed altre che tendono a dividerli, come ad esempio i disaccordi che possono nascere da differenze culturali e da pregiudizi, i baconiani (sempre per rimanere nell'orizzonte culturale dello Humanistic Management) "idola": tribus, specus, fori, theatri.
In questo quadro dunque come si dovrebbero comportare i manager, disponibili a rinunciare alla autorità formale e ad abbandonare gli antichi e ben radicati strumenti operativi, ma ancor prima cognitivi, dello Scientific Management? Cominciamo a dire che ci sono tre ruoli chiave che essi possono/devono giocare:
1) Partecipazione. Significa rimuovere tutto ciò che impedisce alla community di trovare la sua strada verso la produzione di idee innovative. Questo comporta produrre una prima proposta di valore forte, che possa essere largamente condivisa; osservare attentamente quanto accade ed essere pronti a rispondere alle esigenze della community; sostenere concretamente i membri della community in proporzione al loro impegno e al loro contributo fattivo alle attività collettive.
2) Focalizzazione sulla proposta di valore. Il manager deve quindi assicurarsi che il lavoro proceda verso la declinazione pratica della proposta ideale. Per fare ciò, deve monitorare il progresso delle attività, individuando un set di parametri e di obiettivi attesi. Se i risultati non fossero quelli voluti, deve intervenire affinchè i membri della community ri-focalizzino o ristrutturino il modo di operare della community.
3) Valorizzazione della performance. Il manager ha infine il compito di rappresentare la community all’interno dell’organizzazione:
a) assicurando che i sistemi informativi, le funzioni e i processi aziendali supportino e non siano di impedimento al lavoro delle community collaborative;
b) creando tutte le connessioni, fra ogni community e le varie parti dell’organizzazione, necessarie affinché le innovazioni prodotte dal lavoro collaborativo siano utilizzate e contribuiscano effettivamente alla produzione complessiva di valore per l’impresa. Queste connessioni sono essenziali per evitare il rischio che l’innovazione rimanga relegata alla community che la ha prodotta.
In sintesi: partecipazione al lavoro, focalizzazione della visione strategica e valorizzazione della performance della community. Nella prossima puntata vedremo e discuteremo più in dettaglio come i manager possano agire in coerenza con questi tre obiettivi.
4 – continua