Se a proposito dei database abbiamo sottolineato come il modello cognitivo sottinteso fosse il livello, quando si parla delle narrazioni nei social media dobbiamo riferirci al tag. Ma facciamo qualche passo indietro.
E’ sapere comune che dal 2005 blogging, photo-blogging, video-blogging hanno fatto sì che il consumatore di informazioni in rete si trasformasse in un produttore mediale, basti pensare alle piattaforme di user-generated-content quali youtube, flicker, myspace… Ma come è noto, sono stati soprattutto i RSS (Really Simple Syndication), un metodo per descrivere contenuti pubblicati in rete, a trasformare il web da ragnatela in nube (cloud) di dati indicizzati con i tag, ovvero quelle parole chiave che associate a un contenuto, come un post in un blog, un’immagine, un articolo o un video, permettono di catalogarlo, renderlo feedizzabili (reperibili attraverso gli aggregatori a chi è interessato a un particolare argomento) e facilmente individuabile dai motori di ricerca.
I tag consentono anche di visualizzare graficamente le interconnessioni tra gli oggetti presenti nel web. Per capire come funzionano basta visitare Live Plazma una mappa interattiva di dati forniti in tempo reale in cui gli oggetti venduti da amazon.com sono catalogati per stile, periodo storico, popolarità, affinità in base alla percezione che di essi hanno i reali consumatori della cultura e non gli accademici o gli addetti ai lavori. Un altro esempio che ritengo di grande interesse è tenbyten di Jonathan Harris in cui viene presentata una griglia di immagini costruita sull’analisi algoritmica dei feed provenienti dai contatti che i lettori stabiliscono con le news pubblicate da ABC, BBC, CNN, The Guardian, MSNBC, Reuters.
Come potevano gli artisti ignorare questa nuova opportunità offerta loro dalla tecnologia? Di fatto come un tempo si generavano testi a partire da un algoritmo più o meno sofisticato e ispirato ai principi della combinatoria, oggi si possono sfruttare i flussi ininterrotti di dati provenienti dalla rete facendo leva sul medesimo principio della generazione automatica dei testi. Se da un numero alto ma finito di dati si ricavava un numero ancora più alto di testi, oggi la rete si comporta come un connettore di utenti/nodi di informazioni che possono essere visti come potenziali cyber-author. La differenza rispetto ai primi generatori di testi sta nell’utilizzo della network communication per cui è la folla che stabilisce l’instabilità e la mutabilità del testo.
Un primo elemento di riflessione è che l’autore dell’opera funge da ideatore dell’interfaccia (forse quella che un tempo corrispondeva alla poetica), ma ha perso il controllo sui contenuti che sono determinati dai gusti e dagli interessi del fruitore/consumatore. Ne consegue che la stessa idea di interazione, che ha sempre lasciato credere alla intenzionalità nel rapporto tra soggetto e medium digitale, diventa una interazione passiva in cui il fruitore è co-autore in/consapevole dell’esperienza creativa. Penso ad esempio a Listening Post in cui le conversazioni che in tempo reale avvengono in migliaia di chat sono catturate, opportunamente selezionate e messe in mostra all’insaputa dei ‘parlanti/scriventi’ attraverso una installazione collocata in spazi espositivi remoti per un pubblico di spettatori che non è coinvolto attivamente nelle conversazioni.
O ancora penso a The Impermanence Agent di Noah Wardrip-Fruin, una storia in cui al lettore è chiesto solo di leggere il testo e di fornire le tracce lasciate sul computer dalle sue precedenti esperienze di navigazione. La storia narra di documenti persi e conservati (impermanenza), e così facendo il programma recupera le pagine dei siti web già visitati dal lettore unendole ai documenti originali prodotti da Wardrip-Fruin in un a sorta di collage elettronico. L’esperienza della lettura, quindi, risulta diversa per ciascuna macchina. In questo caso l’esperienza narrativa è imprevedibile per l’autore, ma coinvolge il privato del lettore che involontariamente vede la propria vita fondersi con quella dei protagonisti in un rinnovato rapporto tra finzione e realtà. Ciò di cui siamo certi è che l’audience e insieme le macchine diventano co-autori dell’esperienza fruitiva e che l’autore ha pensato non solo a un lettore implicito, ma a un lettore-navigatore implicito che utilizza un particolare computer: testo, programma (algoritmo), fruitore, dispositivo di lettura sono tutti autori del testo che emerge dalla loro interrelazione.
Lo straniamento letterario individuato dai formalisti russi qui serve a mettere in evidenza il processo di navigazione che più o meno inconsapevolmente tutti noi operiamo quotidianamente. Decontestualizzare il browser conduce alla decostruzione della navigazione in internet, ovvero fa emergere il significato implicito delle nostre frequentazioni del WWW, che ormai sentiamo come abituali, familiari e quindi automatiche. Come voleva McLuhan anche il web e le nostre abitudini ‘internettare’ ci possono far diventare servi meccanici del mezzo.
Ma il web 2.0 è geneticamente ‘sociale’ e serve per condividere esperienze e contenuti. Allora si consideri la possibilità di vedere un film in compagnia degli amici di facebook come con I’M HERE, prodotto da ABSOLUT VODKA, o l’uso di piattaforme per la creazione (produzione, fruizione e comunicazione) di racconti che includono anche le narrazioni dedicate alle marche di prodotti commerciali (brand storytelling). Farò solo un paio di esempi tra i numerosi casi che si trovano in rete.
Per prima cosa parliamo del re-blogging, vale a dire di quel fenomeno narrativo legato al copia/incolla di post da blog di autori sconosciuti e riutilizzati per fini narrativi. Per chi non lo conoscesse, si può segnalare l’applicazione tumbler da cui è possibile “condividere tutto senza sforzi. Posta testi, citazioni, link, musica e video dal tuo browser, telefono, scrivania, email, o da dovunque tu sia” nel senso più assoluto della condivisione fattiva dei propri possessi immateriali (interessi, idee, esperienze mediali). Nel sito si dice che “l’utente medio Tumblr crea 14 post originali al mese, e ne reblogga 3. Metà di questi post sono foto. Il resto si divide tra testi, link, citazioni, musica e video”, come dire che una qualsiasi ‘unità culturale’ si può divulgare in rete producendo un patrimonio simbolico che si radica nella mente e nella memoria dei suoi lettori cambiandone implicitamente la coscienza
Re-bloggare diventa il nuovo modo di fare cultura, di trasmettere il sapere secondo criteri non gerarchici, ma orizzontali, asincroni, globali (se supportati dalla conoscenza del comune codice linguistico). Quindi mi sembra interessante sottolineare che non si parla soltanto di trasmissione di informazioni, ma di formazione di sapere e cultura. Potrebbe sembrare banale condividere le foto del proprio viaggio a Rimini o nel lontano oriente, ma il tutto assume un carattere diverso se si pensa a quei paesi in cui vige la censura e il re-blogging diventa un modo per divulgare un pensiero di valore sociale o politico per creare una coscienza etica collettiva.
È ciò che accade nei paesi del Golfo, dove storie scritte secondo i criteri della tradizione araba del racconto orale sono postati anonimamente e poi tradotti nei diversi dialetti arabi e ripostati numerose volte. In un contesto in cui la letteratura elettronica è molto poco conosciuta, tali narrazioni incarnano la quintessenza della letteratura, perché vivono al di là del nome dell’autore, ma come patrimonio culturale condiviso e posseduto dall’intera comunità locale. Nella realtà globale per eccellenza, questo è a mio avviso un incredibile esempio di valorizzazione del locale, ma è anche l’esempio di come la cultura globale non può fare a meno della tradizione insieme alla tecnologia.
Non è difficile intuire che il successo di un racconto, in questo contesto e tanto più in un social medium, si fonda sul grado di coinvolgimento emotivo che l’autore riesce a stabilire con il pubblico. ‘Engagement’ è la parola chiave che si sente più spesso pronunciare dagli esperti: “Engagement: make things active, moving”.
In questo contesto la tecnologia serve alla storia, non viceversa, per cui il compito dell’autore è quello di creare un canovaccio intrigante (interfaccia) e definire le regole della fruizione per permettere al pubblico di prendere il controllo della storia e di partecipare attivamente alla sua scrittura o realizzazione. Questo meccanismo ha fatto sì che molte aziende si impegnassero nella realizzazione di prodotti narrativi per la comunicazione del loro brand o di un nuovo prodotto in uscita, come nel caso di The Conspiracy for Good in cui Nokia, per lanciare un nuovo telefono, ha inventato una storia in cui i suoi acquirenti potevano trasformarsi in eroi e operare per il bene del mondo.
La domanda che in questi casi si pongono i realizzatori è: come può la tecnologia suggerire l’esperienza della storia? Milioni di persone hanno attivamente partecipato al progetto, e l’azienda si è fatta pubblicità partendo dal basso, ovvero scegliendo canali e linguaggi complementari che hanno coinvolto persone su scala globale. Ovviamente una componente determinante per i curatori del progetto è lo studio dei comportamenti della comunità di utenti, ma ciò non era quello che faceva Dickens quando pubblicava i suoi romanzi a puntate sui giornali? Uno dei segreti è quello di affidare al pubblico la marca, proprio perché il confine tra storia e marketing si sfoca ed è l’uso del prodotto a fornire gli strumenti per sviluppare la narrazione.
Un’altra caratteristica di questo progetto è stata la trasmedialità, per dirla alla Henry Jenkins, vale a dire che più media e applicazioni sono state coinvolte nella narrazione: cellulare, rete, facebook, twitter, ecc.. Erroneamente si potrebbe pensare che in un contesto di convergenza, basta prendere un contenuto e rivenderlo su più piattaforme per farne un successo e allargare l’audience. Al contrario, si deve comprendere che proprio la somma delle parti dà luogo a un’esperienza maggiore della fruizione delle singole parti: nessun flusso di comunicazione è isolato. La transmedialità nella narrazione prevede che elementi integranti della fiction finiscono per creare un’esperienza unica e coordinata che risulta essere sommamente coinvolgente perché trascina il fruitore nei suoi diversi strumenti di comunicazione abituale. Ma ciò implica anche che il pubblico deve essere smaliziato e utilizzatore di una molteplicità di strumenti e di applicazioni/piattaforme di comunicazione. I produttori e gli autori di queste narrazioni hanno l’obbligo di considerare i rapporti tra utenti e media, e tra utenti e prodotto culturale.
Da qualche parte non ricordo dove, ho sentito che questi creatori “Design for the culture not with it!”, poiché i comportamenti emergenti dovrebbero servire a migliorare la vita della gente nel rispetto dell’individuo: non è tanto il prodotto che conta quanto l’individuo comunicato. Su questo principio si basa l’idea del coinvolgimento.
Mi piace ricordare a questo proposito un’altra piattaforma di condivisione che trovo interessante: Cowbird. Gli utenti possono postare i loro diari audio-visivi, scrivere storie e collaborare alla costruzione di saghe, come quella attualmente molto cliccata del movimento ‘Occupy Wall Street”. Ciascuno di questi post può essere ri-bloggato o si possono leggere tutti i post di un certo autore o si possono integrare le proprie storie con quelle già pubblicate, esplicitamente o implicitamente condividendo gli stessi tag per scopi ‘giornalistici’ o ‘letterari’.
Questo atteggiamento mi ricorda la metanarrativa postmoderna che Linda Hutcheon distingueva tra esplicita o implicita indipendentemente che il testo fosse più o meno dichiaratamente autoriflessivo. Bene, oggi è l’autore che, taggando il suo testo, definisce non solo l’esperienza della lettura, ma anche l’appartenenza del suo scritto a una nuvola di rapporti intertestuali che fanno della rete un produttore culturale a tutti gli effetti.