La natura della contemporaneità è la natura di Alice: incessantemente mutevole, rinnovata, imprevedibile. In una parola, “impermanente”. In Wonderland come nella contemporaneità postmoderna si smarrisce la possibilità di sviluppare la propria identità “a una dimensione” percorrendo il labirinto univoco della modernità solida, ma in cambio, (dicevamo in Nel Labirinto – Alice annotata 7), si ha la possibilità di creare una nuova personalità molteplice “surfando” in quello pluriverso della postmodernità liquida.
Lo ha confermato Mendini in una intervista sul Corriere della Sera del 16 settembre 2011, a margine della celebrata mostra londinese Postmodernismo. Stile e sovversione. 1970-1990. Una celebrazione che a qualcuno è apparsa come un addio ma che, nelle intenzioni dei curatori Glenn Adamson e Jane Pavitt, vuole soprattutto invitare (visitatori e critici) a riscoprire l’attualità di un movimento che propone “una riflessione ironica sulle forme e sui codici ereditati dal passato”. Spiega Mendini: “Con il Postmoderno è cambiata l’idea che esista un’unica strada per cambiare, che la novità sia a senso unico. Dal 1980 si è più volte annunciata la morte del Postmodernismo. Non direi però che il postmoderno è finito, piuttosto l’attitudine all’intreccio tra culture, l’idea di creazione come labirinto è una realtà acquisita. In questo la missione del Postmoderno può dirsi conclusa ma non esaurita”.
Ora può anche esser che, come ci ricordava Andréj Volkonskij, in un commento pubblicato sulla nostra Pagina Facebook, “il post-moderno in fondo si trascina dietro anche un equivoco (da Lyotard in poi): il pensare che sia una categoria ontologicamente legata ad aventi della contemporaneità. Ma quanto oggi avviene è già avvenuto… la frammentazione dell’io non è cosa esclusivamente contemporanea. E’ già avvenuto che l’io si sia frammentato e anche dimidiato. E’ già avvenuto spesso. Anche l’ellenismo era post-moderno relativamente all’epoca in cui lo si colloca. Tutti ricordiamo la critica platonica contro la scrittura nel Fedro. Prima della scrittura si apprendeva in qualche modo come si apprende oggi dagli ipertesti: oralità e immagini (dunque udito e vista, due dei sensi massicciamente usati nella navigazione ipertestuale). La scrittura però impose una nuova modalità di acquisizione e di elaborazione della realtà: una modalità rigidamente sequenziale (la stampa compì il successivo, quella a caratteri mobili quello ancora successivo). Oggi insomma si tende a recuperare modalità che secoli fa erano, per così dire, normali. Con grande dispendio di polemiche (sto per dire cose che tutti sanno): basti pensare all’ormai classico “La terza fase” di Raffaele Simone in contrapposizione all’altrettanto ormai classico “Nuovo manuale di didattica multimediale” di Roberto Maragliano (che è un manuale “sui generis” in quanto non è un vero manuale, ma un testo che mette sul tappeto alcuni problemi e ci fa riflettere sullo “stato dell’arte”). Per non parlare poi echianamente di apocalittici e integrati.Insomma dovremmo adeguarci all’idea che esistono altre modalità e che quelle modalità noi dovremmo usare. Perché l’ipertesto è un nuovo medium. E ogni medium vuole essere fruito secondo specifiche modalità. Alice usava le nuove/vecchie modalità quando ancora il pc non esisteva…”.
Tuttavia non bisogna confondere la frammentazione/moltiplicazione dell’identità, con il suo annullamento. “Quando la città-stato greca si dissolse (scrive ancora Andréj Volkonskij), e quello che una volta era il cittadino greco si trovò immerso in una realtà sconfinata quale l’impero di Alessandro, avvenne la stessa cosa: il cittadino greco sentì di avere perduto la sua identità (fino a poco prima si identificava con la polis e nella polis prendeva parte a tutto ciò che avveniva. Sentiva di essere qualcuno e di contare qualcosa). Ora non sapeva più chi fosse: era un numero all’interno di una sconfinata popolazione di sudditi. Risultato? Ce lo dice la letteratura greca innanzitutto: si ripiegò per esempio sulla poesia delle piccole cose, della quotidianità (pensiamo alla produzione dei mimi per esempio), roba che oggi sarebbe considerata contenutisticamente alla stregua (voglio usare un confronto forse un po’ esagerato) di certe trasmissioni televisive (dai reality a tutte le questioni discusse nei vari “Forum” della Dalla Chiesa, ecc. ecc.).
Il fenomeno dei reality show (abbiamo affermato in Immagini e Conversazioni – Alice annotata 1) non ha nulla a che fare con la postmodernità liquida, essendo al contrario la tipica espressione dell’annullamento della personalità caratteristico della modernità solida, il cui motore cognitivo e operativo è racchiuso nella micidiale fusione fra lo scientific management, pensato inizialmente per e applicato nel settore industriale, con la burocrazia delle grandi amministrazioni statali descritta da Weber. Questo micidiale mix si è consolidato nel corso del Novecento, permeando di sé l’intera società. Ma in fondo, e qui a ragione Andreij, processi simili sono tipici dei totalitarismi di ogni tempo ed età, ivi compresa quella antica.
Sta di fatto che, come nel fiume di Eraclito, le persone e le organizzazioni oggi sono immerse in processi che trasformano la loro vita attimo dopo attimo: devono così essere pronte a modificare in tempi rapidissimi abitudini quotidiane, metodi e strumenti di lavoro, modi di pensare e di agire. Per questo motivo, le tradizionali scuole di management hanno proposto numerose teorie volte a produrre culture aziendali improntate alla mutazione istantanea, alla formazione continua, alla “distruzione creatrice”. Ma nonostante le prediche (costose) loro impartire da schiere di consulenti, esperti, guru, i manager sembrano incapaci di andare oltre la gestione, spesso poco efficiente, dell’emergenza. La ragione di questo fallimento è semplice. Va ricercata nel difetto d’origine del cosiddetto scientific management: la persistente ricerca di una formula in grado di dominare integralmente la complessità della vita e quindi delle imprese, mentre la realtà (la realtà postmoderna, contemporanea, la realtà di Alice) non consente più di essere regolata da un paradigma ordinatore dalla validità assoluta.
Ha osservato Milli Griffi: “la grande innovazione di Carroll è stata quella di tenere sempre compresenti sia la negazione sia l’affermazione di qualsiasi istanza abbia toccato… se si mantengono aperte le possibilità di andata e ritorno fra i due terminali, i messaggi possono diventare infiniti[ii]”. Un modo diverso di ripetere con Deleuze che “Alice non cresce senza rimpicciolire, e viceversa. Il buon senso è l’affermazione che, in ogni cosa, vi è un senso determinabile; il paradosso di Alice è l’affermazione dei due sensi nello stesso tempo”[ii].
A conferma di questa intuizione, segnalo una lunga nota di Martin Gardner che focalizza nella “reversibilità” un modo leggere il mondo tipicamente carrolliano. Ovviamente Attraverso lo Specchio ruota interamente intorno a questo “punto di vista”, che costituisce comunque un tratto dominante in tutti gli scritti del Reverendo e persino della sua vita privata. Sia sufficiente qui ricordare la sua collezione di box musicali che faceva sempre suonare al contrario o quella di immagini che assumevano un senso diverso se viste a testa in giù.[iii] E’ proprio questa capacità di “pensare al contrario” (che Musil ne L’uomo senza qualità sostiene essere la caratteristica del genio: noi diremmo dell’individuo fluido postmoderno che sa opporsi alla dittatura della solidità moderna) l’innovazione di cui c’è un estremo bisogno oggi, anche nel mondo imprenditoriale, nel momento in cui il cambiamento non è più una fase dell’evoluzione d’azienda, ma è uno stato permanente delle organizzazioni chiamate ad essere “camaleonti” in mutamento continuo. Il cliente esige l’innovazione costante e il benchmark per i manager di ogni settore è Madonna, archetipo conclamato della postmodernità: ogni anno nuovo look, nuovo prodotto, sempre “cool”, sempre diverso. I fattori critici di successo sono la ricerca, la curiosità e il coraggio. Le doti di Alice.
Questa evoluzione senza sosta non può più poggiare sulla costante della metodologia organizzativa scientifica. Il paradigma tayloristico è sfidato dal fatto che non sono più le tecnologie o determinate abilità tecniche il fondamento della competizione strategica, ma elementi di cultura interna da cui muovono continue innovazioni: la fabbrica delle idee. Il capitale intellettuale è dunque al centro, ma mette in crisi il dogma del Pensiero Unico fordista perché si fonda sulla creatività, sulla imprevedibilità, sulla sorpresa, sull’emozione, sulla capacità di vedere oltre il “comune buon senso” le verità impermanenti, fluide, ambigue, contenute anche in ciò che in prima battuta può apparire come nonsenso. Significativamente, fra i molti artisti che, dopo John Tenniel, scelto da Lewis Carroll come illustratore ufficiale dei suoi libri, si sono cimentati nell’impresa di dare forma e colore alle avventure di Alice, vi sia il maestro del surrealismo Salvador Dalí (che fra le altre cose collaborò anche con Walt Disney).
Scrive il sociologo Francesco Morace a commento della poesia Gli animali del circo del Premio Nobel Wislawa Szymborska nel volume Nulla due volte: “Le aziende hanno cercato di “addomesticare” gli uomini, privandoli della loro inevitabile e straordinaria unicità vitale. Si tratta di una vera e propria disumanizzazione dell’impresa, che in nome del controllo (sui colleghi, sul mercato, sui consumatori) tende a produrre squadre di animali “ammaestrati” come quelli tristi e melanconici dei vecchi circhi. Animali in gabbia costretti a ripetere un copione che non stupisce più nessuno. Ed è questo il punto. Perché ancora oggi la magia del circo sta proprio nella sorpresa. Nel mondo previsto e programmato che i manager cercano di costruire, la sorpresa e la meraviglia costituiscono invece componenti pericolose, che spaventano e che ad ogni costo si cerca di evitare. Eppure scopriamo che le persone e i consumatori adorano l’inaspettato, privilegiano la sorpresa e la meraviglia, come i bambini.” I bambini come Alice.
Alice annotata 8b. Continua.
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L’illustrazione in alto a destra è Alice, di Salvador Dalí.
[i] Prefazione a La caccia alla Snaulo, p. lxii, Edizioni Studio Tesi 1985.
[ii] Deleuze, p. 9.
[iii] Martin Gardner, The annotated Alice, The definitive edition, 2000, pp. 141-144