Ancora su “Gran Torino” (regia di Clint Eastwood)

La città americana, di Pino Varchetta

Le vicende delle vite umane sono misteriose, per lo più indecifrabili, e racchiudono ciascuna un nucleo caldo, misterioso, opaco, denso di elementi orientati insieme all’espansione e alla mortificazione del sé. Talvolta alcune umane esistenze colgono un abbrivio e cominciano a salire verso vertici e stature alti. E’ il caso ormai da molto tempo di Clint Eastwood, e questa sua risalita verso “una statura che è diventata infallibile” (Paolo D’Agostini, 2009) è una dei conforti più alti di chi va al cinema, di chi cerca di essere in qualche misura testimone del proprio tempo, di chi crede nelle donne e negli uomini. Clint Eastwood, dopo la sua scoperta da parte della genialità di Sergio Leone nella trilogia “leonina” sull’ultimo west, ha compiuto una lunga militanza in opere del cinema hollywoodiano che, pur sentite, avevano nella sottolineatura esasperata dello stato di eccezione una sorta di chiamata a una prevedibilità assolutoria dell’eroe violento. A un certo punto della sua vita e della sua carriera, Eastwood passa dietro la macchina da presa, diventa autore e nel 1992, dopo la prova di “Bird” del 1988, con “Gli spietati”, raggiunge un primo vertice e dedica questa rivisitazione del western cupa, autunnale e insieme classica, ai suoi maestri Don Siegel e Sergio Leone.

Da allora “non sbaglia più un colpo” e con “Potere assoluto” del 1997 scopre, delle proprie corde autoriali, quella forse che fino a quel film aveva tenuto come più nascosta, probabilmente celata dentro una piega non risolta della sua vita intera. Mi riferisco al tema della paternità e al rapporto quotidiano, difficile con i figli. Tale motivo, a tratti dolorosissimo, a tratti tenero, ma sempre giocato sul filo di un’ossessiva ricerca di senso, è il tema fondante di opere quali, appunto, “Potere assoluto” (la tenera storia del protagonista “ladro di professione” con la figlia avvocato, che non vede da tempo, dopo un divorzio e nella consapevolezza che un avvocato ha qualche difficoltà a incontrare un padre con una simile, conclamata professione), “Mystic river” (“tragedia americana” nella quale la violenza pedofila contro un ragazzino rimanda a un senso di colpa nella vittima fino alla generazione di tragici equivoci nella ricerca del colpevole di un efferato delitto contro una giovane adolescente), “Million dollar baby” (il coach padre fa quello che gli sembra giusto di fronte alla giovane pugile massacrata da un’interpretazione impensabile del confronto sportivo, ospitando dentro di sé la sua giovane “figlia” che non è più e della quale, “padre” disperato ma consapevole del suo dovere, ha interrotto quei lunghi, insopportabili momenti di dolore), “Lettere da Iwo Jima” (il generale Kuribayashi, padre dei suoi figli soldati, sa trovare nel modo di comunicare una profonda pietas nei confronti delle vittime nell’esercizio insensato del potere).
Walt Kowalski, di origine polacca, vecchio in pensione, è stato per trent’anni operaio alla catena di montaggio della Ford, dopo la morte della moglie vive solo in una casetta americana tipica, monofamiliare con un piccolo giardino antistante, in un quartiere nei sobborghi di Detroit, abbandonato dalla middle, low class americana e occupato recentemente da ondate susseguenti di popolazioni di colori diversi dal bianco, nero e soprattutto giallo; questi ultimi i più odiati dal vecchio Walt, che batte sulla propria casa bandiera americana, vota repubblicano, beve birra e nutre un segreto, profondo disprezzo nei confronti di tutti coloro, anche i suoi connazionali americani, che testimoniano valori nuovi non coerenti con quelli da lui vissuti e testimoniati, tipici del grande sogno di quello straordinario paese. Ha due grandi pene nel suo cuore che la macchina da presa riesce a testimoniare continuamente, scavando impietosamente nelle rughe e nel corpo ormai segnato di questo testimone orgoglioso e tenerissimo di una interpretazione maschia della vita. Ha ucciso Kowalski combattendo in Corea contro i nord coreani e in una occasione ha ucciso “da vicino”, forse sopraffatto dalla paura, in ogni caso imprimendo dentro se stesso una pena che non riesce in qualche modo a cancellare. E’ un padre sordo Kowalski; ha due figli piccolo borghesi, con i quali non è mai riuscito a stabilire un vero colloquio, uno scambio che vada oltre le formalità della celebrazione del Ringraziamento o del Natale. Ha ucciso e insieme non ha nutrito dentro di sé la capacità di darsi a quei due ragazzi, ai quali in qualche modo ha donato la vita. Forse anche per questo è così duro, così sprezzante nei giudizi, anche verso un giovane prete cattolico che “armato” della volontà della sua fedele, la moglie di Kowalski, cerca di avvicinarlo per ricondurlo nel proprio gregge. Kowalski resiste a tutto, forte della sua etica di vecchio americano, di fedele contributore all’espansione e alla difesa del suo paese.
Ma Kowalski-Eastwood è un uomo giusto, come il ladro di “Potere assoluto”, il poliziotto di “Mystic river”, il coach di “Million dollar baby”, il generale di “Lettere da Iwo Jima”. Essere giusti significa per Kowalski cercare la verità e la verità coincide con compiere azioni che possano dare un senso al quotidiano, ma un quotidiano che vive e testimonia il rapporto con l’altro. Gli “odiati” suoi vicini, quella famiglia cinese insopportabile, che spesso invade il suo territorio, che fa una cucina con odori insopportabili, hanno un giovane figlio, un ragazzo appena adolescente, che è vittima di soprusi crescenti per mano di una banda di bulletti cinesi in qualche modo con loro vittima imparentati. E’ una violenza stupida, che colpisce ad un certo punto della storia in maniera terribile tutta la famiglia, e in particolare i più giovani, i figli, il giovane ragazzo e la sua deliziosa sorella. Kowalski-Eastwood non ha dubbi e quando suona il momento della verità, quando è necessario scegliere da che parte stare, fa ancora una volta la cosa giusta. E’ alla fine dei suoi giorni Kowalski, irreparabilmente malato, e, birra dopo birra, imprecazione dopo imprecazione, comprende che questa sua vita che sta per finire si deve collegare con quella di quei due ragazzi, ora minacciata da quella banda di violenti. E si prepara come un vecchio astuto, capace di pensare oltre perché in pace con se stesso. Va un’ultima volta dal suo amico barbiere, si fa confezionare un abito su misura adatto alla circostanza, lascia in casa tutto il suo variegato assortimento di pistole e fucili, scrive il proprio testamento nel quale soprattutto destina il possesso e l’uso della sua Gran Torino, modello sportivo del 1972 della Ford al suo giovane “figlio” cinese, e, pronto, si presenta a dare senso alla propria vita immolandosi, consentendo così di catturare ed eliminare quella banda di vuoti e stupidi bulletti cinesi e donando una prospettiva di crescita ora sicura, libera e responsabile ai due giovani ragazzi dei suoi vicini. Il suo funerale diventa così una festa di riconciliazione, durante la quale i protagonisti di questa piccola storia americana comprendono fino nelle pieghe più profonde della loro anima il senso della vita e della testimonianza di quel grande padre, di quel grande nonno, di quell’inimmaginabile vicino. Testardaggine, durezza verso se stessi e verso gli altri, possono coabitare con un recuperato senso della paternità e una sicura sacrificalità: occorrono un buon sceneggiatore, un grande regista e soprattutto fede nel cinema, anche in un cinema con un budget piccolo come qust’ultimo film di Eastwood, probabilmente girato in pochi giorni, lontano dai fasti di Hollywood, ma segnato da un profondo bisogno di testimoniare una instancabile ricerca di verità.