Fisiopatognomoscopia XI
Il metodo di lettura dell’opera d’arte qui proposto ha creato in alcuni interlocutori imbarazzo o dubbio.
Imbarazzo per un eccesso di filosofia in quello che dovrebbe essere un semplice discorso critico; dubbio su dove questo mio discorso, dichiaratamente alternativo a quello della critica d’arte, possa andare a parare. Una precisazione può essere utile.
Il punto di vista che propongo al lettore-spettatore è principalmente semantico: cosa l’opera ci vuol dire, talvolta anche senza la piena consapevolezza dello stesso autore. Da qui il duplice approccio: euristico ed ermeneutico.
L’approccio euristico, o esplicativo, per dipanare il sistema dei segni del linguaggio proprio dell’autore.
L’approccio ermeneutico, o interpretativo, per cogliere il senso dell’opera. Questo approccio apre a sua volta due strade, percorsi diversi che hanno come unico punto d’arrivo il referente, la cosa di cui si parla, ma con una concezione radicalmente diversa di esso.
Seguendo la prima strada, quella del debolismo filosofico oggi dominante, il referente non sta fuori dal sistema dei segni, o del linguaggio; non può. Il referente va cercato o in altri segni, dentro il testo, seguendo le catene delle tautologie, sinonimie, altri legami retorici o testuali, oppure in altri testi, altre opere nel nostro caso, con una serrata indagine filologica. Uscire dal sistema dei segni e dei testi ancor prima che scorretto è inutile. In quel fuori non c’è nulla.
Seguendo la seconda strada, poco battuta di questi tempi, il referente è, al contrario, esterno rispetto al sistema dei segni e al linguaggio, li trascende.
Il linguaggio è la funzione di collegamento tra la coscienza-conoscenza soggettiva e la realtà, sia quella intersoggettiva della comunicazione sia quella delle cose del mondo inteso nel senso più ampio come quelle domiciliate nei mondi possibili della fantasia, del sogno, della religione, delle ipotesi e dei modelli scientifici. Anche questi, previa verifica, sono reali. Questa è l’impostazione che seguo nelle mie note. Qui si apre però una vexata quaestio.
Secondo una scuola di pensiero, cui aderisco, si passa dal segno o significante (parola, frase, tratto di disegno…) al referente, la cosa nel mondo, transitando necessariamente per il “significato”, non nel senso comune del termine, ma nel senso dell’idea platonica del candidato al ruolo di referente, l’essenza della cosa. Se non la si ha in mente, è impossibile individuare il genuino, unico, referente (v. C. K. Ogden, I. A. Richards, Il Significato del Significato. Studio dell’influsso del linguaggio sul pensiero e della scienza del simbolismo, 1923)
Per individuare tra tutti gli equidi il genuino equus caballus, è indispensabile individuare quell’equide, tra i molti, che possiede la cavallinità (un’idea di Platone, questa, e un’idea (essenza) platonica, soggiornante nell’iperuranio, vale a dire trascendente).
Il debolismo nega in radice questa soluzione del problema della referenzialità, in quanto metafisica e da qui il divergere delle due strade. Io, in buona ma ristretta compagnia, la ritengo invece l’unica valida.
Vediamone ora un’applicazione in un’opera d’arte, il sarcofago di Ilaria Del Carretto di Jacopo Della Quercia nel duomo di Lucca.
Opera d’ispirazione borgognona, tardogotica (1406-8), prerinascimentale.
Ilaria fu la seconda moglie di Paolo Guinigi che si era proclamato signore di Lucca, abolendo la Repubblica. Il sarcofago, richiamante esemplari romani presenti nel territorio, voleva essere anche una celebrazione della nuova signoria. In sé è un’opera di squisita e sapiente fattura che esercita un immediato impatto sullo spettatore.
Jacopo s’è presa però una libertà. Non una morte quella rappresentata, ma una dormitio; non il monumento celebrativo di una defunta, ma il ritratto di una persona viva.
I segni significanti ce lo dicono. Non una tunica sudario, ma una veste vera, la lussuosa pellanda della moda francese o fiamminga, aderente al corpo, tranne le maniche a sbuffo, che modella il corpo vivo e ne è modellata. Il volto, le mani non mostrano rigor mortis. La freschezza dell’incarnato è resa, oltre che dalla magistrale volumetria dell’insieme, dalla sensazione di trasparenza della superficie marmorea. Il referente, il significato, seguendo l’audace scelta di Jacopo, è perentorio: Ilaria è viva.
Il cane, ai piedi della defunta, è vivo e attivo. Non il canonico e generico simbolo di fedeltà coniugale –per gli uomini era un leone e indicava coraggio – ma il cane reale di Ilaria. Guarda la padrona e pretende un cenno di attenzione. È totalmente assorbito in quest’attesa; non si contenta della presenza, vuole una risposta.
Anche i personaggi di una crocifissione sono immersi nel dolore, ma non ne sono sopraffati. Sono certi di un destino trascendentale per il crocifisso. Il dolore è qui umanamente e, talvolta, teatralmente composto. Il dolore del cane di Ilaria è invece assoluto: senza perché, senza speranza, statico, pietrificato. Quel cane è inchiodato nella sua reazione psichica all’evento, immediata e consolidata nello stesso istante. Non accetta l’evento, poiché non è in grado di interpretarlo ( v. Hedwig Conrad Martius, Dialoghi Metafisici, 1923).
L’audace innovazione di Jacopo è questo doppio ritratto su registri diversi, quello nel segno dell’immanenza, il cane, quello nel segno della trascendenza, Ilaria. E una doppia inapparenza. Un cane che sembra umano e non lo è, una donna che sembra morta ed è viva.
Questo il significato del sarcofago di Ilaria Del Carretto.