Pino Varchetta: Si può fare (regia di Giulio Manfredonia)
Bisio interpreta il ruolo del protagonista; un sindacalista scomodo, “segato” dal suo vertice e gettato in un compito impossibile: rianimare una comunità di sofferenti mentali, usciti dalla legge 180, verso una prospettiva nuova, imprenditoriale, indicata come salvifica. Bisio, attore, si è lasciato crescere i capelli, non ha più la testa lucente che di solito lo accompagna, e acquista una pensosità utopistica. E il film si muove nell’ossimoro, appunto, in qualcosa di indicibile, forse addirittura di impensabile, che è quello di fare di un povero gruppo di dimenticati e di reietti un gruppo di operatori economicamente efficaci ed efficienti. La regia di Manfredonia è attenta e perspicua. Non abbandona mai il punto di vista prescelto fin dall’inizio, quello gruppale. Sono rari i momenti in cui si ha un campo e un controcampo centrato sul protagonista, Bisio, o su qualche membro del gruppo. Può accadere, ovviamente, e accade, ma è soprattutto il gruppo che si percepisce e si vede sullo schermo. E’ un gruppo che ovviamente sbanda, si affloscia sotto le difficoltà, ma sa rialzarsi e riprendere la retta via. La sfida è quella dell’empowerment ed è straordinario in fondo dire tutto questo, se consideriamo che l’empowerment – concetto e costrutto oggi diffuso dagli studi organizzativi e manageriali – abbia in realtà origini e radici nell’area politica, in quella della psicologia di comunità, in quella medica e psicoterapeutica e infine in quella pedagogica.
La sfida che il gruppo di malati mentali ha è quella di mettere insieme una cooperativa specializzata della messa in opera di pavimenti in legno per abitazioni, uffici e comunità in genere. Il gruppo apprende con facilità e felicità, ma contemporaneamente, mentre impara – e conseguentemente conquista aree del sé individuale e collettivo che non aveva mai “calpestato” – incontra difficoltà e organizzative e, soprattutto, connesse a risposte che non possono non essere date ora ai sé individuali, che nel gruppo e nel lavoro di gruppo hanno trovato un nuovo contenitore. Hanno trovato in altre parole un qualcosa che sa accogliere le loro anime nuove, aperte alle iniziative, all’entusiasmo, a una dignità nuova e a un’espressività, a un autogoverno e a una dolcezza forse dimenticati in ogni caso, da tempo lungo sepolti. Il leader, il personaggio interpretato da Bisio, si trova di fronte alla prefigurazione di nuove opportunità, che possono essere agite e che devono ora essere agite, pena la caduta dell’incanto e il ripiombare nell’anomia e nel disincanto. L’ex sindacalista sa che quegli uomini e quelle donne non possono essere più traditi; hanno sperimentato infatti i loro possibili e dentro questa nuova esperienza il leader sa che sapranno trovare gesti e parole nuove e una nuova capacità di stare con se stessi e con gli altri. Se il film non ha il pathos folgorante di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ha tuttavia una passione vera e una sua provinciale classicità e non è detto che tutto ciò che ci arriva dalla provincia sia meno vero di quello che ci è giunto dal centro, quando, come in questo caso, la provincia è capace di coinvolgerci in una sfida futura in sostituzione di un modello sociale che ha sortito risultati terribili, sviluppato esperienze di dolore e, oggi, inesorabilmente, condannato all’insuccesso.