Piero Trupia
Euristica ed ermeneutica della figura XII
Concludiamo il trittico morandiano: la breve stagione metafisica, il paesaggio con le case cieche e ora la natura morta.
Le nature morte di Morandi mettono in campo comunissimi oggetti della vita quotidiana, bottiglie, vasi e vasetti, caraffe, scatole, palline, lumi a petrolio, fruttiere e zuccheriere d’alluminio, un pezzo di pane, una solitaria chitarra, una testa di pupo, comparsa una sola volta. A sé stante, un vaso con fiori, ripreso fino all’ultimo anno di vita, il 1964.
Il Morandi delle nature morte può essere ascritto al realismo magico, locuzione lanciata da Franz Roh, a proposito de Il Pino sul mare di Carlo Carrà, 1921 (Franz Roh, Nach Expressionismus – Magischer Realismus, 1925). Morandi frequentò Carrà e ne condivise la poetica, purificando vieppiù il linguaggio, al fine di raggiungere, nelle parole di Roh, una “apparizione conchiusa, ben poco minacciata dalla soggezione alla storia.”
In una foto degli anni ’60 vediamo Morandi assorto in contemplazione di alcuni oggetti della sua collezione, destinati ad essere portati, al momento giusto, sulla tela. Quando? Non appena gli avessero rivelato il loro segreto. Li collezionava, li disponeva su ripiani nel suo studio, componendoli e ricomponendoli fino al momento in cui la loro fàtica fosse tanto autorevolmente espressiva, da poter essere fissata sulla tela.
Morandi fu contemporaneo di Elio Vittorini. Conversazione in Sicilia (1938) fu considerata opera neorealistica e tale la considerò lo stesso autore nello spirito del tempo. È invece realismo magico, una variazione della contemporanea metafisica in pittura. Vittorini stesso, del resto, parla, con riferimento alla contemporanea letteratura americana che veniva traducendo, della “necessità di una maggiore concretezza metafisica quale garanzia di una maggiore concretezza artistica.” (Dalla prefazione di Giovanni Falaschi a Conversazione in Sicilia, BUR, 1986).
Le nature morte di Morandi hanno questa concretezza metafisica che fonda la loro concretezza artistica nella chiave del realismo magico. È la rivelazione immediata di una verità assoluta, magica perché sorprendentemente manifesta nella povera elementarità espressiva degli oggetti ordinari.
Vittorini e Morandi, e così Carrà e De Chirico, vogliono rivelare una verità di fondo e fondativa dell’essere in sé e negli esistenti. Il Vittorini della Conversazione con la descrizione del paesaggio rupestre del natio villaggio. Innevato, solitario, abitato più dai trapassati (molti) che non dai viventi (pochi), dei quali si odono i passi più di quanto non si scorga la figura. Paesaggio immobile, silenzioso, se non per i pennacchi sui camini e per la voce natalizia della zampogna e dell’oboe. In questa scenografia la singolare conversazione, nei crocicchi o negli abituri illuminati dall’olio lampante, sul “mondo offeso” e sulla proclamazione, rigorosamente personale, della rivolta morale contro gli offensori. In Vittorini c’è ancora del pittoresco, c’è un richiamo alla storia e alla cronaca. Non in Morandi. La sua narrazione è pura forma; individuante però, secondo la tommasiana materia signata quantitate, l’oggetto nella sua unicità.
Nella Natura Morta del 1941, replicata quattro volte con piccole variazioni nello stesso anno, vediamo tre, quattro o cinque oggetti disposti su un piano puramente geometrico – non un tavolo, non una scansia – che incontra non la parete ma l’orizzonte.
Negli anni ’20 il piano d’appoggio era perfettamente individuato, precisamente contornato e isolato nello spazio. Negli anni ’30 il piano d’appoggio è una superficie geometrica che interseca direttamente l’orizzonte. Negli ultimi anni, vediamo il vaso con fiori, più volte ripreso, sospeso nello spazio indistinto; in un caso, il vaso sporge dal piano d’appoggio verso lo sfondo. In altri casi ha un suo piccolo sfondo, contro il grande sfondo dello spazio totale.
Gli oggetti in scena in queste nature morte sono variamente significanti. Gioca la luce sia come illuminazione esterna sia come luce, o assenza di luce, propria.
Nella Natura Morta dell’immagine riportata a corredo di questo intervento, vediamo un vaso cilindrico rastremato verso il basso, bianco e luminoso, superficie a spicchi e collo lungo. Un vaso piccolo cilindrico, liscio, azzurro nel corpo, bianco nel collo che è leggermente rigonfio alla base. Un piccolo vaso azzurro monocromo, di forma sferoidale, base nettamente delineata, collo lungo svasato all’imboccatura, tappo di vetro. Un lume a petrolio bianco con una modanatura toroidale a metà corpo e tubo di vetro di un nero profondo. In due delle variazioni è presente un piccolo contenitore in ceramica in primo piano, di un bianco intenso. In una singola variazione gli oggetti sono ridotti a tre, due vasi e il lume, di altezza digradante verso lo sfondo con il lume in primo piano. Un’evidente fuga prospettica verso lo sfondo.
Nell’opera di Morandi tutti e singoli gli oggetti sono perfettamente individuati, sono uno di uno, sono individui.
Quale l’interpretazione di questa precisa raffigurazione morandiana?
Avvalendosi di uno sguardo semiotico, si colgono dei precisi segni significanti.
Anzitutto, la luce.
Pur essendo gli oggetti ugualmente esposti come mostra l’ombra portata, alcuni sono luminosi, alcuni meno, altri parzialmente oscuri, uno è nero intenso. È il tubo di vetro del lume a petrolio, di per sé diffusore di luce. Può essere fumo, ma questa è osservazione naturalistica. Il fumo si deposita e viene normalmente rimosso. Quel lume invece ha rinunciato a brillare; è una stella spenta; è un lume morto, un nulla in quanto lume. Le altre canne, ugualmente verticali e non a caso presenti, radiano più o meno intensamente. Sono in una diversa fase della loro evoluzione. Tendono però tutte alla dissoluzione, al riassorbimento nello spazio profondo dello sfondo che non è – altro segno significante – un’entità omogenea. È animato per la diversità della pennellata e per le variazioni sottili della luce (questi particolari non sono visibili nella riproduzione). In questa materia signata animata gli esistenti sono destinati a collassare nello spazio infinito dello sfondo, essere o nulla che sia.
Questa la narrativa morandiana, a illustrazione della fondamentale domanda leibniziana sull’uno e sui molti. Perché? Per quanto tempo? Temporalmente, definitivamente, ciclicamente?
A ognuno di noi la risposta.