di Piero Trupia
Euristica ed ermeneutica della figura IX
L’euristica e l’ermeneutica dell’opera d’arte non mutano al mutare del medium – pittura, scultura, poesia, fotografia – così come non muta la natura del messaggio: il vero nel suo splendore, nella sua purezza essenziale. Muta il linguaggio, lo stile, il procedimento, i segni espressivi, i significanti lessicali e discorsivi, ma la forma e la sostanza del messaggio restano. È la claritas, la verità nel suo splendore che riluce anche nei “triti fatti” (Montale).
Questa impostazione si oppone all’estetica contemporanea, da Duchamp in qua, per la quale, nell’arte, non bisogna cercare alcun messaggio rivelatore di alcuna verità. In primo luogo, per il fatto che, in quanto uomini, non siamo in grado di individuare la verità. Il mondo è la sua apparenza. In esso si evidenziano pure delle coerenze, ma queste non vanno oltre la cerchia dei segni che sono o no in accordo tra loro, che mostrano o no una rispondenza reciproca di tipo esclusivamente grammaticale e sintattico. Questo tipo di coerenza è un limite che non possiamo valicare. Il regno del significato, ove cogliere il referente, la cosa esterna al linguaggio e di cui il linguaggio parlerebbe, è un mito. L’unica possibile semantica è quella che invia e rinvia da un segno all’altro e, nell’ermeneutica, da un testo all’altro, sincronicamente, nella contemporaneità, diacronicamente, nella storiografia e nella filologia. La semiosi infinita di Eco.
La semantica trascendentale, quella dei significati fuori del linguaggio, nella realtà, sarebbe un sogno metafisico. Questa, l’impronta del pensiero debole sulla linguistica. Nulla di nuovo. È lo scetticismo e la sofistica della filosofia greca con l’aggiunta del prefisso “neo”.
A tutto ciò si oppone l’esperienza diretta della visione di una vera opera d’are. Senza sapere perché e come, si riceve un forte impatto, prima percettivo e poi emotivo. Esso è rivelatore di una presenza oltre la materialità e la linguisticità dell’opera, il suo messaggio, anche soltanto intuìto in questo primo incontro, e che trascende l’apparato linguistico.
Proviamo con tre brani poetici.
1. Di queste case /non è rimasto / che qualche / brandello di muro. / Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto./ Ma nel cuore / nessuna croce manca. / E’ il mio cuore / il paese più straziato. (Giuseppe Ungaretti, Mondatori, 1966, p. 46, orig. 1914-1918)
Nel testo sono presenti dei segni significanti che svolgono la funzione semiotica della deissi. Per i neoscettici i segni deittici operano nell’immanenza linguistica, indicano qualcosa all’interno del codice linguistico. Per i semantici trascendentalisti indicano qualcosa fuori del codice linguistico, nel mondo. “Cose”, “tanti”, “mio cuore” indicano cose del mondo reale, sono i referenti (esterni) del discorso. Significativa anche la doppia dizione “nel cuore” / “il mio cuore”.
La semantica trascendentalista ha la sua base inconcussa nella dottrina platonica delle idee, esposta, principalmente, nel Fedone e nel Parmenide. A ragione Whitehead poteva dire “Tutta la filosofia altro non è che note in calce alle opere di Platone.”
Vediamo il Fedone.
“Se c’è una cosa bella al di fuori del bello in sé [
la Bellezza
come idea necessaria, universale, eterna] per nessun’altra ragione quella cosa è bella, se non perché partecipa di quel bello in sé.” (Platone, Fedone, XLIX, c, Laterza, 1951).
E nel Parmenide il Parmenide filosofo, personaggio del Dialogo, dice: “Dunque, l’idea una e identica [l’essenza delle cose] si ritrova [“si ritroverebbe” renderebbe meglio la coloritura polemica del detto parmenideo] nelle cose molteplici […]; questa idea esisterà [esisterebbe] allora tutta intera in esse e così sarà [sarebbe] da sé distinta e separata” (131,b). Parmenide non poteva accettare una divisione dell’essere.
E Socrate, che nei Dialoghi è la voce di Platone, obietta. “Ritengo che ci sia un’altra soluzione: queste idee sono immobili nell’ideale essenza […] e le cose sensibili e staccate dalle idee assomigliano a quelle idee e ne sono simulacro. Così questa partecipazione delle cose alle idee avviene perché le cose sono immagine e copia delle idee.” (ivi, 132, d)
Vediamo ora gli altri due testi.
2. […] Di soste viviamo / non turbi profondo cercare / ma scorran le vene, / da quattro punti di mondo / la vita in figure mi viene. (Lucio Piccolo, Canti Barocchi, Mondatori, 1967, p. 88)
Qui è la realtà che si rivela, ancor prima che venga discorsivizzata.
3. “Ora lunghesso il litoral cammina / la greggia. / Senza mutamento è l’aria. / Il sole imbionda sì la viva lana / che quasi dalla sabbia non divaria. / Isciacquio, calpestio, dolci romori. / Ah perché non son io co’ i miei pastori?” (Gabriele D’Annunzio, Alcyone, Mondatori, 1939, p. 236)
Qui il riferimento ideale, che con la sua luminosa verità fa bella la strofa, è il ritorno al luogo agognato e familiare, dal quale le contingenze della vita tengono lontani. La fabula del distacco e dell’anelito del ritorno di ogni narrazione