Di Piero Trupia
Euristica ed ermeneutica della figura VIII
L’estetica odierna non sa distinguere l’artistico, bello o brutto che sia, dal triviale e, talvolta, dall’imbroglio. I sofisticati affermano che questa distinzione non è più necessaria. Esaltano l’affrancamento dell’arte dalla tirannia della bellezza, senza precisare di quale bellezza si tratti.
Era accaduto. Prima con la liberazione dalla mimèsi, derubricando la meraviglia di Plinio il V. di fronte al grappolo d’uva dipinto, così vero che gli uccelli scendevano a beccarlo.
Contro la bellezza in senso puramente decorativo testimoniavano già allora Il Galata Morente e il Lacoonte, belli ma non come la Venere di Milo. Idem per le arcaiche metope del tempio di Selinunte del Museo Nazionale di Palermo.
I frammenti architettonici sono però belli a qualsiasi scala, tanto che i vedutisti ne hanno creati di pura invenzione e gli architetti di giardini ne hanno costruito di palesemente falsi. Ciò avviene per il fatto che il frammento ci suggerisce l’intero che ricostruiamo mentalmente.
Ne Les Demoiselles d’Avignon e in Guernica il bello c’è, ma dov’è nascosto? Nell’arte. Bello artistico e bello estetizzante divergono.
Nella Fontana di Duchamp c’è il bello di design ma non c’è l’arte, malgrado la furbizia di rovesciare l’oggetto che in tal caso non è più fontana. Il liquido traboccherebbe. E così viene anche meno la provocazione di voler accreditare come artistico un oggetto normalmente screditato. Rovesciato, esce dalla sfera dell’arredamento ed entra in quella delle icone.
Siamo al punto. Abbiamo una bellezza della pura forma, il decorativo, e una della sostanza, l’opera d’arte. Una crocifissione di Lucas Cranach il V. è arte senza bellezza (convenzionale), una madonna di fattura manieristica è bella (convenzionalmente), senza arte. Si può ragionevolmente appendere in un’anticamera. La Primavera di Botticelli è bella con arte. Sta bene agli Uffizi.
L’arte va oltre la mera consonanza di cui ci parla Ales Bello nei suoi acuti e documentati commenti. Ci suggerisce anche che la consonanza è necessaria come significante, in virtù di ciò che indica fuori dell’opera, il significato. In tal senso può essere variamente declinata. Le trombe del giudizio in un Requiem sono normalmente dissonanti. Lo sono sintatticamente. Sono però consonanti semanticamente. Indicano la rottura di uno stato di cose ritenuto immutabile. Così la dissonanza divenuta regola nella musica atonale.
Cosa esprime allora la consonanza classica o la dissonanza consonante contemporanea? Esprime la verità della cosa, mostrata nel contingente. In Tommaso D’Aquino “la Claritas”; nelle parole di Theodor Adorno, una “unità monadologica” (Teoria estetica, PBE, p. 503) Un fenomeno che Adorno denomina “spiritualizzazione [che] ha ricondotto all’arte ciò che […] era escluso in quanto spiacevole ai sensi o repellente.” (ivi, p. 156). Hegel ne ha trattato e Baudelaire lo ha messo in pratica.
Il proprium dell’arte è allora l’artistico, cioé la claritas, non il bello decorativo. La claritas, congiuntamente a integritas e consonantia, fa la bellezza vera che è la verità nel suo splendore o lo splendore della verità, la verità nella sua purezza assoluta, quella dell’iperuranio.
Presento ora un’opera bella, non esteticamente, ma artisticamente. Una foto per una campagna di fund-raising di Medici Senza Frontiere.
Una storia in tre episodi.
Un fare iniziale (1° fotogramma), un “fare per”; un fare finale, il risultato (3° fotogramma); un fare intermedio, un consulto medico solidale, cui si contrappone, nella didascalia, un fare alternativo di normale successo professionale che è stato scartato.
Protagonista della storia è una donna-medico che interagisce con due madri africane. Un bambino è l’oggetto diretto del fare.
Nel 1° episodio il medico scavalca un fossato su una scala a pioli utilizzata come passerella (il superamento dell’ostacolo nello schema narratologico). Nel secondo, a colloquio con le madri, riflette e ricostruisce l’anamnesi. Nel terzo, riconsegna il bambino guarito.
Uno script di tre didascalie traccia la drammaturgia di una scelta di vita che apre, in termini narratologici, al bene agognato, la massima felicità, quella del dono fatto e del risultato ottenuto. Quello altrui.
Topos della storia è le mani, impegnate nel fare: chiedere, offrire, ottenere. Durante il consulto le due madri sono presenti soltanto con le mani che entrano nell’inquadratura, mentre una delle mani del medico sorregge il mento nella riflessione. Nel superamento del fossato una mano stringe un sacchetto con le medicine (l’amuleto narratologico), l’altra, all’apice del braccio, riequilibra il malcerto andare.
Infine, le due mani mediche (magiche nella morfologia della fiaba) riconsegnano il bimbo guarito. La mano è incorporate nel suo corpo, mosso nella ripresa fotografica, a significare il rapido e felice movimento del ritorno.
Le mani delle due madri a consulto hanno dimensione normale, quella che riprende il bambino è fuori scala. In questo fotogramma, i due volti, il bianco e il nero, sono, rassicurato il primo, materno più che professionale, il secondo.
La ripresa fotografica è ricercatamente povera, per un’Africa diversa da quella spettacolare dei documentari. Qui vediamo baracche, sterrati, pozzanghere.
Il grigio seppiato dell’immagine ci parla dell’immobilità dell’Africa, lontana nel tempo e nello spazio, alternativa al nostro mondo patinato. Un antimondo, semanticamente consonante, che risplende di verità, oscurando il nostro perenne suoni e luci.