Prima futurista, poi metafisico, infine trascendentale. Giotto, Masaccio, Cèzanne i suoi riferimenti. Passando alla metafisica, abbandona la dinamicità turbolenta del futurismo e fissa le immagini nell’eternità immobile dell’attimo semantico assoluto. Ne è espressione apicale Le figlie di Loth , cm. 110×80, olio su tela, 1919, collezione privata.
L’impatto dell’opera sullo spettatore è fortissimo, tanto da suggerire alla critica espressioni di enfatico lirismo che sforano nel misterico. “Una pittura senza ombre , immersa in una luce irreale” dicono all’unisono le enciclopedie. Ma “irreale” sta qui per “non fattuale”, vale a dire metafisico, supremamente, trascendentemente significativo.
Alcuni commenti registrano l’impatto e lì si fermano. “Nel quadro di Carrà sentii improvvisamente una voce chiara e sonora giungere al mio cuore.” (W. Worringer, Carlo Carrà’s Pinie am Meer, in Wissen und Leben, n. 10, 1925). È questo l’approccio risultativo che ti dice cosa succede, ma non come succede. Altri giocano la carta filologica, ritrovando l’ascendente nella storia della pittura. “La ricerca giottesca in quell’equilibrio di masse appoggiate e reagenti […] una trasparenza e purezza rare […] una semplicità monumentale.” (C. L. Raggianti, in Critica d’Arte, 1934). Metà ermetico, metà generico.
L’ermetismo mette il critico al riparo dalla critica. “Carrà riesce sempre in quell’accordo di compensazione tra le facoltà sfolgoranti e sinuose e quelle scrutinanti e selettive.” (R. Longhi, Carlo Carrà, 1937). Ecco ora il didatta per antonomasia, il chiarissimo, G. C. Argan. (Appunti su Carrà, in Le Arti , 1939) “Il fatto stesso che la forma abbia dentro di sé […] la propria condizione di spazio e che pertanto la composizione assuma il valore di un’articolazione interna di forma o, analogamente, di un’estensione, non solo del modulo ma della sostanza formale, a tutta la realtà, spiega il senso, non impressionistico, della simultaneità costruttiva, e non soltanto visiva, dello spazio nella pittura di Carrà. Lo spiega non psicologicamente, come rivelazione improvvisa, ma come conclusione emotiva di una meditata trascrizione della realtà empirica in esemplificazione totale ed esauriente della realtà come ultimo e assoluto uguagliarsi del mondo esterno, e dell’interno, tra i quali ormai, e proprio per questa saturazione di ogni interesse conoscitivo, non è più comunicazione possibile. Neppure attraverso l’anelito di commozione che è un brancolare incerto, un balbettio confuso e indistinto a confronto della risoluta certezza dell’illuminazione poetica. Questa simultanea soluzione in valore assoluto di tutti i dati formali, questo loro connettersi d’un tratto per identità del livello espressivo, è riconoscibile in tutti i momenti più definiti dello stile di Carrà.”
Franz Roh fu il primo a cogliere la novità del linguaggio di Carrà. “Volumi plastici ora conseguiti direttamente dalla realtà naturale. In ciò consiste l’urto risolutivo con l’intero orientamento europeo. Carrà […] in una inesorabile severità spirituale punta alla purezza di una cubica plenitudine [ un cubismo non astrattivo], accanto a una misurata povertà e freddezza del disegno […] incanta per l’apparizione conchiusa.” (Nach-Expressionismus. Magisches Realismus, 1925).
Carrà riprende gli stilemi post-ducceschi di un realismo narrativo che va oltre la realtà fattuale, mostrando tuttavia in essa una plotiniana anima del mondo. L’architettura delle figure e del paesaggio è giottesca, la narratività declinata come tessuto testuale è memore della lezione del Beato Angelico. Ieraticità della figura e cristallina trasparenza del paesaggio. Gli oggetti presenti nella composizione sono uno di uno, punti di singolarità nell’universo. Apparentemente non creano inerenza per l’assenza di rimandi tra l’uno e l’altro. Ma l’inerenza c’è e nasce dalla luce che crea quella che comunemente si dice atmosfera. Nella luce gli oggetti – cose e persone – sono fissati come in un inesorabile campo energetico che penetra ogni cosa, conferendo ad essa quella radianza che è la forma di questa particolare, metafisica inerenza che riprende quella ante litteram di Giotto, l’Angelico, Masaccio. Ne Le Figlie di Loth lo stesso cane, al centro della figurazione, riscatta l’uniforme color fulvo del mantello con la luce intensa del bianco puro del muso.
Restiamo con Le Figlie di Loth.
Il colore è senza tono locale, campito e netto, senza ombreggiamento. La figura è ritagliata nello spazio, monumentale senza enfasi.
La vicenda è biblica. Loth, la moglie e le due figlie erano i giusti da salvare nella distruzione di Sodoma. Scomparsa la moglie per aver trasgredito l’ordine divino di non voltarsi a guardare la città in fiamme, Loth e le figlie prendono la via dell’esilio. La più anziana delle due fanciulle, preoccupata di assicurare una discendenza alla famiglia, propone alla sorella di inebriare il genitore con il vino e di giacersi con lui. La rappresentazione coglie il momento, solenne se non liturgico, della formulazione della proposta.
L’opera è articolata in tre piani.
Il primo piano esibisce quel rigoroso geometrismo dinamico inaugurato da Paolo Uccello con La Battaglia di San Romano (1460). Le braccia e le gambe angolate, con le mani e i piedi a completare la configurazione; la geometria del cane – icona familiare e citazione diretta dal Gioacchino tra i Pastori degli Scrovegni – che raccorda le due figure; le pieghe del panneggio e gli orli delle tuniche, con l’arco convesso di quello a sinistra in rispondenza all’arco concavo della coda del cane; l’asta in obliquo in primissimo piano; la quadrettatura del pavimento che diventa parete. Questa geometria attesta il rigore di un universo non posto a caso, pur consentendo e contemplando punti di singolarità quale l’esorbitanza dell’asta. L’ordine di un mondo che la dissolutezza umana non può turbare se non per un momento.
La stessa geometria si ritrova nel paesaggio del secondo piano.
La torre di roccia a destra apre la scena, così come la facciata fortemente prospettica dell’edificio a sinistra che accelera la fuga spaziale. Nel paesaggio due coni orografici, diversi solo per l’effetto prospettico, aprono la scena sul terzo piano ove s’intravede una tholos, elemento conclusivo della rappresentazione. Abbiamo così tre forme coniche, quattro se includiamo la pianta sul rilievo a destra. Nell’iconologia classica i poliedri rastremati verso l’alto – cono e piramide in primo luogo – indicano verticalità dinamica e quindi trascendenza. Alla tholos si raccorda il cippo e la pigna che lo sormonta in primo piano, di una verticalità attenuata. La via che s’insinua tra i due rilievi orografici ha la stessa radianza luminosa della fascia alta del cielo a indicare il valore metafisico del punto d’arrivo-tholos.
La narrazione de Le Figlie di Loth segna un momento di passaggio da una fase di decadenza a una di rinascita. La sorella minore, quella a sinistra, sulla soglia di casa, destinataria della scandalosa proposta, è sospesa. Guarda però lontano. Accetterà alla fine e nasceranno, contemporaneamente, Moab, da cui la stirpe dei Moabiti, e Ammon, da cui quella degli Ammoniti (Genesi, 19, 15-38).
Accetterà , poiché quel doppio incesto rientra nell’ordine cosmico e provvidenziale del popolo eletto.