di Piero Trupia.
Il volto è oggetto topico nella rappresentazione pittorica. In esso si raggiunge il massimo dell’intensità espressiva e della densità semantica. Sentimenti, percezione, sensazione, moti dell’animo, come sicurezza o insicurezza, volontà, progettualità, rinuncia, rassegnazione e molto altro ancora. Il ritratto rappresenta, nell’istante, una vita nella sua storia e nella sua prospettiva.
Un caso di grande valore euristico e didattico nella ritrattistica è la serie di autoritratti di Antonio Laccabue, poi Ligabue (Zurigo 1899-Gualtieri 1965). Figlio di una emigrante italiana dopo che il marito si era dileguato, fu cresciuto ed educato al disegno da una famiglia adottiva svizzera. Si firmava anche Ligabün.
Tornato a Gualtieri, visse randagio per alcuni anni. Gli fu diagnosticata una sindrome maniaco-depressiva e fu ricoverato a più riprese in ospedale psichiatrico. Anche dopo aver cominciato a vendere i suoi quadri, condusse vita solitaria in riva al Po, tra i ponti Boretto e Borgoforte, con folli corse fino a Brescia e a Lumezzane su una motoguzzi rossa.
Il Ligabue degli autoritratti è un’altra persona rispetto al Ligabue reale, semplicemente perché, nell’atto di ritrarsi, guarisce dalla sua marginalità e conseguenti ossessioni.
Abbiamo la possibilità di un confronto documentale tra il Ligabue reale e malato e il Ligabue ideale e guarito, il primo in una fototessera, il secondo in un autoritratto.
Nella fototessera vediamo un uomo impaurito, in fuga; nell’autoritratto un uomo “presente e loquente”, eretto di fronte al mondo. Nella foto, i lineamenti sono abbandonati, gli occhi sbarrati di fronte a un mondo nemico, le sopracciglia scendono sul lato esterno, la pupilla è fissa, il naso pesa sulla bocca, il cui labbro superiore si appoggia sull’inferiore. La fronte è aggrottata per uno smarrimento angoscioso nei confronti di un mondo aggressivo nella sua incomprensibilità.
Nell’autoritratto i lineamenti sono in una tensione significante presenza e autoconsapevolezza, lo sguardo è rivolto lateralmente, ad spectatorem illum cui il messaggio è indirizzato. Le sopraciglia non pendono ma aprono, in orizzontale, verso l’esterno. La figura si apre e non implode come nella foto. Il naso è solidamente piantato nel volto, costruito con modalità cubista, ad esprimere consapevole sicurezza. Il labbro superiore è espressionisticamente disegnato e non appoggia sull’inferiore, il quale, a sua volta, è teso e forte come nel michelangiolesco Bruto del Bargello. Le guance sono ferme e non rilasciate, la capigliatura ben pettinata e non più ispida.
Il Ligabue dell’autoritratto è certamente una idealizzazione del Ligabue reale. È il traguardo ideale di un malato che guarisce nell’esercizio della sua arte o nelle folli corse sulla motoguzzi rossa. Infine, lo sfondo. Mai neutro in pittura; non un fondale, ma un mondo: contesto, ambiente e universo della gettatezza. Nero nell’autoritratto di Ligabue, con anfratti e percorsi di fuga in cui perdersi. Il labirinto della vita di tutti i giorni cui l’artista è sfuggito. Contro quello sfondo minaccioso il Nostro si staglia ora nella postura della presenza.
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