Enzo Riboni su: Danny l’eletto, di Chaim Potok.
La comunità ebraica di Brooklyn negli anni della seconda guerra mondiale sembra un luogo piuttosto insolito per andare a cercare lumi sulle dinamiche di impresa. Temi come il diversity management o come la vision dei leader aziendali sembrano infatti solo frutti recenti delle teorie gestionali. Eppure proprio lì, tra ortodossi ed integrati che giocano a baseball, si possono trovare insegnamenti, leggendo il libro scritto da Chaim Potok nel 1967: Danny l’eletto.
Due adolescenti, Danny Saunders e Reuven Malter, si stanno affrontando duramente in una partita di baseball. Il primo è uno chassid, un ultraortodosso, di quelli con il ricciolino e la palandrana nera. Reuven, invece, è “solo” un ebreo ortodosso (un eretico per Danny) e, verso la fine della partita, viene colpito a un occhio da una palla lanciata da Danny. Dall’odio tra i due nasce però una profonda amicizia che dà senso a tutto il romanzo. La diversità dei mondi da cui provengono i due adolescenti diventa così la condizione dell’arricchimento reciproco, del salto di qualità, di un’hegeliana sintesi superiore.
Danny e Reuven separati, infatti, sono due intelligenti ragazzi chiusi nel loro ambiente e a rischio di involuzione per mancanza di stimoli. I due insieme, invece, acquistano quel valore aggiunto che viene dalla frequentazione del “diverso”, dalla conoscenza di esperienze non vissute che allargano la propria visione del mondo. E la nascita di una nuova tolleranza non è l’accettazione passiva di qualcosa di estraneo che decidiamo di sopportare, ma l’integrazione creativa di due unicità. “Ognuno – ha affermato Potok – cresce all’interno di un piccolo mondo immutabile … Allo stesso tempo, però, dall’esterno arriva una quantità di idee”. E il segreto per crescere è di non contrastarle, ma di vagliarle criticamente, di discuterle e, se è il caso, di farle proprie. Proprio come avviene tra Danny e Reuven nella crescita della loro conoscenza e comunicazione.
Oggi in molte aziende va di moda il “diversity management”, il buon proposito della valorizzazione delle diversità: di genere, di razza, di religione, di preferenze sessuali. Spesso è una moda perché non si discosta da un “politically correct” di pura immagine, da vendere all’esterno attraverso gli uffici di comunicazione. In qualche caso, tuttavia, soprattutto in alcune grandi multinazionali che sono conglomerate di razze e culture diverse, il diversity management diventa un vero e proprio programma di sviluppo delle specificità individuali. Il problema è però la formazione delle persone, a partire dai vertici, perché davvero si accetti di confrontarsi con le particolarità dell’altro per trarre il meglio da ognuno. E l’avvicinamento progressivo di Reuven e Danny a partire dalla loro lontananza e incomprensione iniziali, è certamente una lettura illuminante per chi assume il ruolo nascente di diversity manager non accontentandosi dei corsi tecnici.
Ma Danny l’eletto non ci dà solo una lezione di integrabilità di ciò che appare impenetrabile. Ci suggerisce che comunicazione non significa omologazione e che avere delle idee, possedere, come si dice oggi in azienda, una “vision”, vuol dire avere una bussola ben orientata. Che è poi l’unico modo per essere in grado, al momento opportuno, di cambiare coscientemente direzione, di riconoscere e di scegliere la via dell’innovazione. Innovativa è stata infatti per Danny la lettura dei libri profani (aborriti dal padre) e, ancor più, di quelli “satanici” scritti da Freud. Che è invece proprio il pensatore verso il quale Danny si sente più attratto. Non tanto per il fascino del proibito (la trasgressione è innovazione?) quanto perché vede in lui un modo alternativo di dare risposte, pur cogliendo la “pericolosità” del nuovo. Un nuovo che va contro il padre perché trova un modo per gestire e curare il dolore umano alternativo al pensiero religioso ebraico. Freud diventa così la metafora di quell’umanesimo laico che focalizza l’attenzione sulla comprensione razionale dei meccanismi più profondi dell’animo. Quell’attenzione alle dinamiche individuali che in azienda dovrebbero essere appannaggio di chi gestisce le risorse umane ma che, spesso, scivolano in secondo piano di fronte alle necessità dei budget e alle riequilibrature dei costi.
Del resto Potok non ci consegna una storia atemporale, perché qualunque innovazione può trarre senso solo dalla sua epoca, rispetto alla quale il nuovo può essere concepito, emergere e realizzarsi come diversità dall’esistente. Al punto che il nuovo riesce a travolgere persino il conservatorismo del padre di Danny, che infine si arrende alla decisione del figlio di studiare psicologia all’università e di non proseguire nella tradizione di famiglia che lo vorrebbe consacrare rabbino. Con un magnifico finale di ribaltamento dei ruoli. Perché sarà Reuven, l’appassionato di logica matematica, a scegliere di diventare rabbino, ma senza rinunciare alla sua razionalità e sete di conoscenza. Un’inversione di destini che, in un certo senso, ci conferma l’inarrestabilità del nuovo e la sua indifferenza all’identità di chi lo realizza. Una metafora che, per un’impresa, annuncia l’ineluttabilità dell’innovazione: chi non la persegue è tagliato fuori, perché ci sarà comunque qualcun altro a tuffarsi nel flusso del cambiamento.
(Per saperne di più leggere: Il grande libro della LETTERATURA per manager, Etas, marzo 2008).
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