La visione del futuro (di una città, di una azienda, di una vita) deve essere flessibile, oggetto di continua riflessione, impermanente, pur mantenendo la sua unicità. E’ questo propriamente il tema de Le città e il cielo. In ognuna delle cinque ‘voci’ che compongono questa sezione troviamo da un lato un’entità diveniente, mutevole, intrisa di temporalità e quindi anche imperfetta, e d’altro lato una sorta di modello immutabile ed eterno, identificato con l’armonia perfetta del firmamento o con le forme chiare e ordinate di un oggetto quasi sacro, come l’arazzo di Eudossia. Se di primo acchito saremmo portati a ritenere che la città autentica sia quella racchiusa nel modello immutabile (come credono Platone e Taylor), ben presto siamo invece invitati a ricrederci. Così appunto nel caso di Eudossia, città dove, come dicevo, è conservato un tappeto nella cui trama ben tessuta si può ammirare un disegno ordinato e simmetrico che parrebbe esprimere la vera forma della città:
“tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l’odore di pesce, è quanto appare nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto prova che c’è un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio”.
Dire che la forma della città è quella disegnata nel tappeto sarebbe un po’ come sostenere l’illusorietà della dialettica del divenire e la necessità di dimenticare la propria appartenenza al presente, ponendosi da una sorta di punto di vista che non è un punto di vista, un ‘punto di vista da nessun luogo’, a partire dal quale soltanto è possibile scorgere la realtà della città nella sua essenza immutabile e a-temporale. Ma a ben vedere non è questo che ci invita a fare l’autore, che anzi ci propone quasi subito l’ipotesi opposta, quella per cui
“la vera mappa dell’universo è la città d’Eudossia così com’è, una macchia che dilaga senza forma, con vie tutte a zig-zag, case che franano l’una sull’altra nel polverone, incendi, urla nel buio”.
Gloria Bellicchi, già vincitrice del Concorso Miss Italia nel 1998 e oggi conduttrice TV e scrittrice, nel romanzo collettivo Le Aziende In-Visibili così ripensa Eudossia:
– Dove se ne andrà in ferie, quest’anno?, chiede Fordgates al Direttore delle Risorse Umane.
– Vorrei andare, risponde Deckard, al Villaggio Turistico che anni fa ho visitato con mia moglie.
Il Club Mad. Rammenta la complicata estensione in alto e in basso di quell’estivo falansterio. In origine creato come resort di lusso per ex imperatori sulle rovine dell’antichissima capitale di un’isola che, secondo alcuni, corrispondeva con la mitica Atlantide, era poi stato completamente ristrutturato per essere adibito al più lucroso turismo di massa.
Ricorda i vicoli tortuosi, con scale, zone per lo shopping, casinò, ristoranti, teatri, piscine, bagni termali, palestre, campi da tennis, calcetto, golf, tiro con l’arco. Ma soprattutto la Mad Max, la grande Carta di Seta esposta nella piazza principale da cui contemplare la vera forma del Villaggio. Lunga 19 metri e alta 5, rappresenta tutte le strade interne che dall’ingresso conducono fino all’ultima spiaggetta: un paesaggio minuzioso in cui un invisibile viandante supera alture, scavalca fiumi su ponticelli arcuati, si moltiplica in mille viottoli serpeggianti intorno ai bungalow privati e fra le aree pubbliche. È l’estrema risorsa per i dipendenti e per i turisti: quando non si raccapezzano più, possono ritrovare la via perduta semplicemente cercando tra le trame del misterioso arazzo. Non si sa molto sulla sua provenienza; si vocifera che abbia fattezze divine. Sia come sia, chiunque lo consulti trova l’esatta ubicazione del luogo verso cui si sta dirigendo, che appare magicamente illuminato dall’indicazione: “Voi dovreste essere qui”.
Certo, riflette Deckard, sarebbe di grande aiuto poter consultare, magari stampata sulla schiena, la mappa di ciascuno, la rappresentazione grafica di quel che è, privato di quei fronzoli capaci di confondere l’occhio di un osservatore esterno.
L’accozzaglia di pensieri, paure, desideri e segreti che siamo si estende in vallate soleggiate come in palazzi grigio fumo, in bandiere cangianti, stabili monumenti e cunicoli sotterranei.
Tanto la carta topografica quanto la segnaletica stradale della città, per non dire mondo, che ognuno di noi è, sono contenute solo nella chimerica soluzione del rebus da noi stessi costituito.
Se, per pigrizia o faciloneria, da una manciata di vie, di caratteri, pretendiamo di estrapolare il piano regolatore, l’intima essenza di un individuo, ci ritroveremo con un’idea che, derivando da una prospettiva parziale, è, a sua volta, solo parziale, se non del tutto errata.
Perdersi al Club Mad è facile.
Sarebbe semplice non smarrirsi se lo si potesse osservare da quel leggendario punto di vista, da quel Belvedere, dal quale, si favoleggia, mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio. Quello dal quale si dice sia stato elaborato il disegno di Mad Max.
Un atto di ubris, secondo alcuni, di presunzione tanto arrogante quanto la convinzione di possedere tutte le coordinate necessarie a conoscere chi hai accanto; che si paga con la rivelazione improvvisa di essere vicino ad uno sconosciuto. Un Visitor, un lucertolone alieno, un succube che si nutre della nostra anima. Gli torna alla mente la scena: lei che gli vomita in faccia, con una virulenza insospettabile, le parole: “Non ti amo, non ti ho mai amato, la tua stupidità mi fa orrore”. L’immagine si sovrappone a quella in cui la bellissima visitatrice divora un topo vivo e la sua faccia si apre come una cerniera rivelandone la vera natura di rettile repellente.
Eppure, pensa Deckard, sarebbe stato possibile comprenderci e crescere insieme se ci fossimo osservati da quel Belvedere che consente di leggere gli spazi esterni ma anche quelli più interni dell’Altro. Il Luogo Mistico ineffabile e, forse, irraggiungibile, Oltre la Sfera del Tuono, dove si alimenta la fiamma dell’Ascolto Reciproco e si erge la cristallina simmetria dell’Armonia.
Sul rapporto ermetico tra due oggetti così diversi come la Carta di Seta e il Villaggio fu interrogato l’oracolo: uno “è” il Villaggio l’altro ne è la copia, imperfetta pur nell’estrema similitudine, questo fu il responso.
Qualunque residente sarebbe pronto ad affermare a cuor leggero che il disegno della Carta, schematico e chiaro, intercetta la vera essenza del Villaggio, mentre il Club Mad, con le sue infinite distrazioni, in cui è più difficile ritrovarsi, ne è la riproduzione. È in effetti comprensibile: la realtà più semplice da capire è quella che il popolo chiassoso del Villaggio vuole credere sia quella vera.
Ma le cose potrebbero stare diversamente: ogni elemento che pare superfluo nel Villaggio potrebbe essere la rivelazione di quel che esso è. A loro, tuttavia, non piace molto questa versione. Ingarbuglia le menti. Richiede uno sforzo. E perché mai farlo dal momento che la Carta di Seta c’è e pare essere da sempre una garanzia?
– Un dollaro per i suoi pensieri, Deckard.
– Sto pensando che non si può essere mai troppo certi di poter abbracciare in un pensiero l’essenza di qualcuno. Mi risponderà che è ovvio quel che dico perché, per quanto attendibile sia, la tua idea di una realtà non potrà mai davvero coincidere con quella realtà stessa.
Ma non solo a questo mi riferisco. Il fatto è che potrebbe essere l’essenza a rivelarsi più complessa dell’apparenza. E potrebbe non essere fronzolo, bensì essenza, quel che tu chiami fronzolo.