Kevin Prufer e Wayne Miller, curatori dell’antologia New European Poets (Graywolf) hanno tentato l’impossibile: stabilire un canone della nuova poesia europea, ovvero della poesia pubblicata in Europa a partire dagli anni Settanta. I non proprio “chiarissimi” Marella Feltrin-Morris, Peter Covino e Chad Davidson sono i tre temerari critici cui è stata affidato l’arduo compito di censire l’Italia. Sorvoliamo sulle scelte e limitiamoci a pensare alla difficoltà di un lavoro del genere e ad ipotizzare che il pubblico anglofono sia più preparato di quello italiano…
Che ne sappiamo in Italia dell’intimità lirica di Rosa Alice Branco, o, per restare in ambiente lusofono, di Rui Pires Cabral? I poemi in prosa “profani” del rumeno Radu Andriescu non hanno editori e traduttori italiani, il temerario surrealismo della cecoslovacca Sylva Fischerova, o della russa Irina Ratushinskaya, della bielorussa Valzhyna Mort probabilmente ci resteranno ignote per chissà quanto; il polacco Adam Widemann e la finlandese Cathrine Grondahl, li conosceremo mai? Ma soprattutto, a qualcuno interessa? A quegli Stati Uniti che fanno vendere tirature impensabili a poeti come Reginald Shepherd o Billy Collins evidentemente sì. Qui da noi invece solo il secondo recentemente è approdato in libreria grazie a Donzelli, ma in poesia tutto appare sconosciuto, slegato, difficilmente comprensibile nel suo reale valore, e gli editori sono i primi a non crederci e a pensare che “tanto qui in Italia le regole sono diverse”. Il vero ostacolo alla diffusione della poesia è l’obbiettiva difficoltà (estrema) nel reperire i materiali nei grandi canali di distribuzione, e, anche nel caso di eventi encomiabili come la fiera dell’editoria di poesia di Pozzolo Formigaro, è forte la sensazione di trovarsi in una “riserva”; che ad alcuni potrà anche far sentire il tepore della comunità, ma altri potrebbe condurre alla depressione e all’alcolismo. Oppure ad aprire casinò. A Milano ho visto un manifesto elettorale della lega raffigurante un indiano, Apache o Cheyenne non saprei dire. Lo slogan che dice “anche loro hanno subito l’immigrazione” merita un acido ghigno di disperazione gialla. In poesia fortunatamente ogni invasione è una boccata d’aria. Non si tratta di esterofilia, ma di un tentativo di comprensione di ciò che avviene fuori dai nostri angusti confini (al di là della celebre beffa di Montale sull’intraducibilità del testo poetico). Spesso invece mi pare di trovarmi invischiato in un eterna replica di quel vecchio sketch di Boldi dove lui diceva “come dite voi a Roma ‘casa’ noi qui a Milano diciamo casa”, e così via. A chi volesse aprire la finestra e prender aria consiglio le poesie di Forugh Farrokhzad (Tehran, 1935-1967) recentemente tradotte dal giovane Domenico Ingenito per l’editore Orient Espress; leggete cosa ne scrive la bella rivista on line il Porto di Toledo.
Postato dalla personalità mutante di: Andrea Amerio