Per l’appuntamento con “Le aziende e l’innovazione dovunque”, Roberto Panzarani propone una suggestiva intervista (I Parte) a Gianluca Bocchi, Coordinatore scientifico del centro di eccellenza CE.R.CO. (Centro di Ricerca sulla Complessità) e Professore Ordinario dell’Università di Bergamo,a cura di Massimiliano Cannata (giornalista esperto in innovazione tecnologica).
Formare individui integrati è oggi il primo autentico must, che significa avere il senso del presente e dell’epoca in cui viviamo. Sarà decisivo lavorare sui modelli cognitivi, sulle forma ma anche sui contenuti, altrimenti diventa impossibile abituarsi a capire la cultura planetaria, che non è un modello omologante, ma un fenomeno culturale ed economico integrato, sostenuto da tanti attori diversificati”. Questa la premessa concettuale forte da cui parte l’intervista (che pubblicheremo a puntate) con Gian Luca Bocchi, considerato tra gli indiscussi pionieri italiani della complessità. Risale al 1985 la prima edizione della celebre antologia, La sfida della complessità, pubblicata con Mauro Ceruti per Feltrinelli e divenuta presto un libro cult, cui hanno fatto seguito numerosi saggi che hanno indagato le tappe essenziali di sviluppo della storia universale. Il percorso dialettico parte dai diversi tempi della “globalizzazione”, per giungere a teorizzare il viaggio, topos letterario per eccellenza, quale strumento efficace per ribaltare la metodica della formazione manageriale. “Viaggiare significa attraversare luoghi innovativi, significa compiere un rito di passaggio. Penso ad esempio alla ritualità del viaggio di Marco Polo, attraverso cui l’individuo raggiunge un grado di maggiore maturità e di consapevolezza. Se costruiamo bene un itinerario e andiamo a visitare luoghi che ci interessano dal punto di vista specialistico, possiamo constatare che quelle realtà sono tali perché vi sono processi globali in atto, che non sarebbero comprensibili senza che ci fossero alle spalle processi culturali e storici a lungo raggio. Globale e locale, forma e contenuto si toccano nella dimensione del viaggio, aiutandoci a generare un modello cognitivo, originale ed efficace”. Lo studioso ha in mente il flaneur, lo reinterpreta nelle vesti di formatore del futuro, riconducendosi al personaggio gentiluomo frutto dell’invenzione letteraria di Charles Baudelair , impegnato a vagare per le città, ma straordinariamente capace di tramutare ogni tappa in un’esperienza significativa di conoscenza, senza farsi schiacciare dalla predeterminazione di percorsi fissati apriori.
I diversi “tempi” della globalizzazione
Formazione globale nel tempo della complessità tecnologica. Nella ricerca che l’epistemologo Gian Luca Bocchi porta avanti da almeno un ventennio, (è del 1985 la fortunata antologia la sfida della complessità pubblicata con Mauro Ceruti un testo di riferimento per molti studiosi) tre termini chiave ricorrono: formazione, globalizzazione, complessità. E’ possibile declinarli nell’ottica dell’impresa che si muove in uno scenario ipercompetitivo?
L’ultimo saggio di Umberto Eco Dall’albero al labirinto che ha riaperto il dibattito, mai completamento sopito tra realismo e pensiero debole, può darci uno spunto interessante per affrontare una problematica certamente vasta e ricca di implicazioni. L’interrogativo del semiologo è chiaro: hanno avuto senso tutte le narrazioni che hanno prevalso alla fine del XX secolo, che ci spiegano che siamo fuori dalla modernità in un’età nuova che va meglio definita meglio nei connotati distintivi o ci troviamo piuttosto ad una seconda fase, che molti definiscono della modernità riflessiva? Un primo elemento va subito introdotto: la modernità, cosa che molti dimenticano è stata un volano di globalizzazione molto forte, oggi siamo alla “quarta globalizzazione”, il fenomeno non è qualcosa di inedito, come la storia insegna.
La letteratura corrente ci porta a pensare che il fenomeno della globalizzazione sarebbe nato alla fine del XX secolo, sulla spinta vorticosa un insieme di fattori scientifici e tecnologici, che si sono alleati e sovrapposti dell’ Information Communication Technology. Dobbiamo ritenere errata questa interpretazione ?
Non è esattamente così, come sosteniamo in molti scritti insieme a Mauro Ceruti. La prima forma di economia globale è molto più remota di quello che crediamo. Ogni novità ha sempre delle radici antiche. Esiste una letteratura sulla storia globale, come dimostrano le ricerche di Cavalli Sforza sull’origine del linguaggio e il bellissimo libro di J. Diamond Armi acciaio e malattie, che non può essere ignorata. Un importante contributo storiografico arriva alla contemporaneità da un filone di pensiero che ha cercato le origini della globalizzazione risalendo fino al 3000 a. C. Osservando il progresso della civiltà occidentale, dalla civiltà egizia, alla Mesopotamia, all’Impero romano, e dell’oriente, quindi della Cina, gli studiosi ci fanno notare come le fasi di prosperità politica ed economica di Roma, sono coincidenti con momenti di crescita dell’impero cinese. Questo vuol dire che gli scambi commerciali tra gli imperi influivano anche nel mondo antico, ed avevano un peso sulla salute economica. C’era un sistema – mondo che lasciava scoperte le Americhe, l’Australia, e gran parte dell’Africa marginale, ma che già metteva in contatto, anche se indiretto, luoghi come l’Indonesia e l’Irlanda. La rete è dunque molto più antica di quello che si crede, senza contare non si potrebbero comprendere né la filosofia, né la scienza, né il diritto se non si tenesse conto della fitta trama fatta di complesse interazioni, che in epoche che ci appaiono oggi remote, avevano avvicinato mondi assolutamente diversi.
Possiamo in sintesi distinguere le fasi della globalizzazione, cercando di enucleare i passaggi salienti che ci permettono di capire meglio il nostro tempo?
La prima era, che definirei ancora poco “globale” per la limitatezza degli spostamenti, risale alla grande diaspora umana che popola tutto il pianeta. L’umanità si divide in tante piccole popolazioni, e si adatta ai diversi habitat, sviluppando conoscenze specifiche. Questa fase si caratterizza per una grande diversità culturale, una diversità che crea conoscenza. Anche se le grandi migrazioni avverranno con l’avvento delle civiltà nomadi, queste piccoli nuclei anche scambiandosi le mogli attivavano una comunicazione tra clan, facendo circolare idee, persone e tecnologie. Le culture che nascono come forma di adattamento agli ambienti è un elemento che ha un significato anche in un’epoca come quella nostra che dà sempre più importanza al contesto e all’ecosistema delle idee. In questa fase della storia dell’umanità vi è la massima diversità culturale, mentre la comunicazione tra realtà geografiche diverse rimane ancora poco estesa.
La seconda fase quando avrebbe avuto inizio?
Con l’origine dell’agricoltura che crea possibilità di sviluppo demografico in relazione al surplus alimentare, portando fatalmente disuguaglianze. Le società si stratificano in classi, nascono le categorie dei guerrieri dei politici e dei sacerdoti. L’ineguaglianza si riflette anche tra le civiltà che tendono ad espandersi, è quello che succede agli agricoltori, mentre i cacciatori e i raccoglitori cominciano a diventare marginali. Negli ultimi anni questa epoca della storia umana è stata studiata come l’emergenza di un grande reticolo eurasiatico. Diamond ha spiegato molto bene come l’agricoltura nascendo in Medio Oriente e in Cina abbia generato un tessuto di interscambi alla pari, basti pensare al riso che arriva in Medio Oriente e ai cereali che vanno verso la Cina e l’India. Tre grandi percorsi lo testimoniano: la via della seta che attraversa l’Asia centrale, la via delle spezie, troviamo chiodi di garofano che dall’Indonesia e che giungono in Mesopotamia nel 2800 a.C. A queste si aggiunge una terza via, meno studiata, quella delle pellicce, che disegna un territorio vasto dagli Urali alla Siberia, ha fatto giungere in Cina molte novità tecnologiche. L’Eurasia è per altro un luogo estremamente interessante, perché è lì che nasce la concezione dell’impero.
Sta parlando di un altro concetto che sta ritornando sotto varie forme e definizioni, quando credevamo facesse parte del passato. Ritiene che anche su questo gli imperi dell’epoca classica hanno degli addentellati con le nuove teorie della scienza politica ?
L’impero come forma organizzativa del potere è un tentativo importante di coniugare unità e diversità. L’esempio dell’impero romano è interessante da questo punto di vista. La centralità politica non impedisce agli imperatori di sviluppare delle alleanze con le classi dirigenti locali. Roma fondamentalmente si considera, l’estensione avvenuta nel 212 della cittadinanza ne è una prova, culturalmente plurale. Per questo si è attirata la critica delle città – stato greche, fortemente etniciste. Quelli che in epoca medievale saranno definiti i barbari, i germani, erano coinvolti dentro l’impero romano, molti secoli prima che iniziasse la decadenza. Quella di Roma è una cultura sincretica. Il secondo aspetto agli occhi dei moderni parimenti interessante, riguarda la strategia rispetto ai confini. L’impero ha dei limiti geografici fisiologici, è basato sulle strade che sono i principali canali di comunicazione. Da Roma al vallo Adriano in Scozia occorrevano 15 giorni, un tempo fisiologicamente lungo e difficile. Un limes naturale dunque esiste ed è concepito sulle esigenze interne dell’impero. Ma il limes non è una muraglia, è semmai una zona di sovrapposizione, permeabile da altri popoli. L’impero non crolla per i popoli che risedono nella zona di frontiera, ma per le migrazioni degli Unni che capovolge equilibri e situazioni.
Nell’ambito della ricerca antropologica la frontiera è una linea di confine intrinsecamente ambigua. Marc Augé ha ribadito in una recente lectio magistralis la necessità di ripensare questo concetto nei termini di un “passaggio negoziato”, che deve mettere in comunicazione popoli, culture etnie, mentre si fa strada la dimensione della “città-mondo” in cui globalizzazione e urbanizzazione si intrecciano. Qual è la sua idea in proposito ?
Che la frontiera possa essere una cerniera mobile non una muraglia invalicabile è un’idea che ha un impatto molto forte nel dibattito contemporaneo. E’ difficile infatti capire dopo la fine del bipolarismo e il declino dello stato westfaliano, di cui parla Bertrand Badie che significato hanno le frontiere, dove saranno poste e soprattutto che cosa separeranno. Siamo nel tempo della mondializzazione plurale in cui il disegno degli equilibri non risponde a leggi deterministiche. Tornando agli esempi del mondo antico possiamo notare come questa strategia “illuminata” dei confini non è applicabile solo all’impero romano, perché è estendibile anche alla Cina. L’inclusività prevalente in questo modello ha a che fare con una forma di globalizzazione, sicuramente ante litteram. La Cina aveva certo degli avversari come i mongoli e i popoli delle steppe. Dove però finiva l’impero cinese iniziavano i tributari, poi si arrivava ai nomadi amici, fino ai nomadi non più controllabili. L’idea della fascia cuscinetto era dunque comune sia ai romani che ai cinesi. Affermare l’unità nella diversità, pensare che una grande cultura come per il mondo classico sono state la cultura latina e greca potessero fare da “ponte” rispetto alle svariate culture locali, ragionamento che abbiamo visto vale anche per la Cina, molto più aperta verso l’esterno di quanto vorrebbero gli stereotipi. Siamo di fronte ad espedienti di scienza della politica condivisibili anche agli occhi dei moderni. Come vede se ci volgiamo indietro troviamo molti segni premonitori, che ci danno da pensare quando proviamo a tratteggiare il fenomeno della globalizzazione.
Proviamo a fare un passo avanti. Quando si colloca cronologicamente la terza globalizzazione?
E’ direttamente conseguente ad una data: il 1492, è questa la soglia temporale in cui si registra l’unificazione di tutti i sistemi agricoli del mondo. Nessuno nel giro di un secolo potrò chiamarsi fuori dalle reti, che costruiscono non solo gli europei, ma anche la Cina. La modernità segna il prevalere di poche grandi culture forti: quella europea, cinese, russa giapponese (Cina e Russia si spartiscono l’Asia centrale), quindi si palesa come un luogo di riduzione della diversità culturale.
In pochi decenni dopo l’”avventura” colombiana, da parte delle grandi potenze europee, con in testa Spagna e Portogallo, si creano le grandi reti commerciali globali, come quella che va da Cadice a Siviglia fino a Hong Kong e che attraversa l’America e il Pacifico.
La Cina pur vivendo un sensibile di declino molto forte intorno al 1800 appare, nella storiografia più recente un attore importante, almeno nella prima fase dell’età moderna. Lo stesso vale per l’India con l’impero Mogul. La dinamicità dei popoli europei dà il segno distintivo di questo momento della storia dell’umanità, una dinamicità che coinvolge anche il Continente africano e asiatico. L’esempio del caffè che nasce dall’Etiopia in Africa e che presto viene commerciato in America, la patata che arriva in Cina intorno al 1600, per raggiungere le isole del Pacifico. Nel giro di due secoli vengono insomma create reti umane globali, che riducono l’autonomia delle culture. Al contrario che nella precedente epoca in cui, come ho detto, era la diversificazione (se si tolgono alcune eccezioni come i fenomeni di omologazione dell’Islam e della cultura cinese) che aveva prevalso, l’affacciarsi nell’età moderna di alcuni vincitori, riduce inevitabilmente il ventaglio delle differenza e delle autonomie.
Quali sono le conseguenze di questo processo che genera, per usare una classica distinzione gramsciana, culture egemoni e culture subalterne?
I Cinesi, l’Islam, l’Europa, il Giappone sono le culture prevalenti della modernità. Basta ricordare che nasce sostanzialmente con un genocidio in parte non voluto, perché microbico dell’uomo europeo rispetto all’uomo americano. Va però anche detto che quello che succede in America con la riduzione delle culture precedenti all’arrivo dei conquistatori occidentali, coincide con la creazione di nuove presenze. Questo è spiegabile se pensiamo che gli USA sono nati come progetto anglosassone, ma che hanno fondamentalmente dovuto integrare prima gli irlandesi e gli italiani, di matrice cattolica, in un secondo momento gli asiatici: cinesi e giapponesi, ed infine gli africani. La notizia delle primarie che si stanno svolgendo in questo mesi riguarda l’appoggio di Kennedy alla candidatura di Obama. Così assistiamo a questa inversione: negli anni sessanta del secolo scorso il presidente cattolico aveva attirato l’attenzione del mondo, nel XXI Secolo il polo attrattore della campagna presidenziale è, invece, Obama e la cultura di cui si fa portatore. La globalizzazione è caratterizzata da questa grande ambiguità: è sostenuta da un’ideologia omologante, anche se poi la pratica di questa stessa ideologia crea diversificazione.
La modernità, come Lei scrive in Educazione e Globalizzazione non riesce a risolvere questa ambiguità di fondo. Per quale ragione?
Volendo fare un bilancio, che riprenderemo dal punto di vista scientifico, potrei rispondere negativamente. La modernità si caratterizza infatti per questa essenziale ambivalenza, nasce con delle regole del gioco molto strette. Le potenze predominanti hanno tutto l’interesse ad omologare. Quello che avviene negli Stati nazionali europei è esemplare a questo proposito: per creare un mercato di consumatori cercano di standardizzare le lingue, le religioni, centralizzando il potere politico. Questa operazione crea, però, dei flussi spesso imprevedibili che a loro volta generano fattori di diversità non controllata, esercitata dal basso. I cittadini che accedono, infatti, alla lingua, alla cultura e alla mobilità prendono coscienza della loro individualità e delle loro radici, che reagisce alla cultura dominante, avviando un percorso che porta alla presa di coscienza delle diverse individualità. Con l’apertura progressiva degli stati all’immigrazione, si sono generati nuovi patchwork culturali, che costituiscono il profilo prevalente delle nostre metropoli. In sintesi: mentre la modernità ha retto governando un’ambiguità di fondo: modelli omologanti versus realtà diversificante, oggi restare fedeli ai modelli omologanti è un prezzo troppo grosso da pagare di fronte alla necessità di governare in tempio reale l’esplosione della complessità.
Veniamo alla quarta fase. La globalizzazione che stiamo vivendo, in analogia con i fenomeni evolutivi della “rete”, sta assumendo le sembianze di un simulacro, di un soggetto cosmopolita che agisce nel circuito della soggettività obbligandoci a delineare un nuovo spazio iniziatico, una nuova identità. Lo strumento tecnologico ha cambiato pelle, a cosa dobbiamo prepararci?
Dobbiamo prima di tutto definire questa fase della globalizzazione per poi entrare nell’analisi delle varie categorie che la compongono. Questa terza ondata ha una caratteristica fondamentale: oltre alle interazioni mediate dallo spazio, si nutre di interazioni in tempo reale, mediate dalle tecnologie. Per rispondere alla domanda quella che cambia sono le variabili dello spazio e del tempo, che non sono più contenitori kantianamente separati, perché si è creato un’unica variabile spazio-tempo globale, che possiede delle connotazioni assolutamente nuove.
La globalizzazione di oggi non è tanto definibile in termine di delocalizzazione della produzione, ma in termini di rapidità delle interazioni. Mentre in tutte le forme antiche l’io era un elemento protetto a livello identitario, cui si contrapponeva l’altro, quale elemento la cui interazione veniva ritualizzata in certi momenti particolari. Un esempio per tutti: la Repubblica di Venezia interagiva con la Cina grazie alla ritualizzazione di alcuni viaggiatori, Marco Polo è il più celebre. In età moderna alcuni viaggiatori diventano più numerosi, si standardizza il viaggio, ci accorgiamo che l’altro è un elemento perturbante, che incide sulla presenza dell’io in ogni momento dell’esistenza. La globalizzazione originata dalla scoperta dell’America e che si è poi protratta nei secoli della modernità si realizzava per contiguità spaziale, oggi la logica è molto diversa, il fenomeno si compie e si completa in un cortocircuito tra locale e globale, che avviene in ogni luogo, in ogni angolo delle metropoli, aperte alla “vetrinizzazione” dei fenomeni sociali.
(1. Continua)
L’intervista (ripresa da The Innovation Network Magazine dello Studio Panzarani & Associates di Marzo 2008) è stata postata dalla personalità mutante di: Roberto Panzarani