Pino Varchetta su: Into the wild (regia di Sean Penn)
Il giovane uomo attraversa il suo mondo, dal centro verso il sud e successivamente dal sud verso il nord dentro il mito di una natura selvaggia, quella delle terre sconfinate, incontaminate, dove le basse temperature sono sinonimo di purezza, trasparenza, e dove tali tratti della natura fanno da contrappunto alla non purezza, alla non trasparenza delle relazioni delle donne e degli uomini.
Il nostro giovane protagonista ha avuto un’infanzia e un’adolescenza difficili, vissute, o per meglio dire, spese dentro una tipica famiglia malata di contemporaneità, con un padre non all’altezza del compito e una madre, forse migliore, ma certo incapace di assumere la funzione sostitutiva di contenimento lasciata vuota dal padre. Concluso l’iter scolastico di primo grado, butta alle ortiche la prospettiva allettante di una università prestigiosa e chiede licenza per sperimentarsi nell’incontro da tempo desiderato con la natura. Distrugge ogni legame che sappia di formalismo, danaro, facilitazione; riempie un sacco di essenzialità e imbraccia un fucile, unico segno di una cultura aggressiva che ha fondato questa terra, questa patria, fino a farne una potenza geopoliticamente mondiale. E’ un giovane uomo di una forte sapienza relazionale, che nel lungo viaggio stabilisce relazioni anche profonde con una variegata umanità che il caso getta sulla sua strada. Forse si innamora anche, ma tutte le volte che l’incontro con l’altro arriva alle soglie di un impegno, il ragazzo fugge, rompe e se ne va, e si riaccosta, o meglio si ri-immerge nella natura, dove le città scompaiono, dove non c’è nulla che protegga dall’impatto con l’imprevisto, perché l’uomo considera tale relazione buona e salvifica, al contrario delle relazioni con i suoi simili, indicate come negative sulla base di un pregiudizio che da emotivo cresce fino a essere ideologico. E così la prospettiva emotiva e filosofica dell’empatia – la convinzione in altre parole che tutto ciò che può capitare agli altri può accadere anche a noi stessi – si vanifica e si scioglie come la neve delle distese immense ai primi soli di primavera. E il ragazzo è solo, senza gli altri, senza la città, senza alcun contenitore che faccia riferimento a tracce culturali, ai tentativi stratificati nel tempo dalle donne e dagli uomini di trovare soluzioni nel loro rapporto con la natura, capaci di sostituire quell’attrezzatura deficitaria con la quale la vita ha voluto caratterizzare la specificità umana. Specie mancante, la donna e l’uomo, esseri neotenici, nati prematuri e, come tali, destinari a rimanere tali per tutto l’arco del loro apparire in questo mondo, ma capaci, in quanto mancanti, di relazione con l’altro e così immersi in processi di apprendimento continui, occasioni emergenti di sviluppo. La mente umana per svilupparsi ha bisogno dell’incontro con un’altra mente, e tale dualismo, tale eteronomia, induce all’autonomia, esperienza mai raggiunta completamente ma sempre instancabilmente ricercata. E’ stato detto recentemente che la vera natura dell’uomo è la cultura e che la città è l’artefatto che per definizione salda questa equazione e la rappresenta efficacemente nella sua evoluzione secolare. Il giovane protagonista della nostra storia avrà come città il relitto di un autobus e appoggiato alla parete lunga di tale artefatto culturale scatterà le sue ultime foto, vittima di un sogno del quale l’ideologia ha ahimè diluito le capacità di vero volo liberatorio.
Postato dalla personalità mutante di: Pino Varchetta