«La vetrina», spiega Vanni Codeluppi, «è anche metafora di un rapporto sociale che cambia. Il vetro è un interfaccia fra interno e esterno». Ed è di lì che sgorgano una dopo l´altra “vetrinizzazioni” infinite, che coinvolgono luoghi, rapporti, corpi, fasi della vita. E’ ormai diventato normale che una persona di solito riservata metta in pubblico un suo evento privato. Il modello, per il sociologo, è quel remoto passante, spinto man mano a diventare vetrina di se stesso. «In una realtà dove contano unicamente la rappresentazione e l´imperativo dell´autopromozione, il soggetto si esibisce, si veste, si mostra in un certo modo. Anche il corpo diventa modellabile come un packaging commerciale da esibire. Con il modello di riferimento del giovane: bisogna tutti sembrare giovani». E i giovani veri? «Usano lo schema in cui crescono, per il quale la realtà non conta, conta solo la sua rappresentazione. Il che produce effetti come quello del sito delle “Suicide Girls”: circa mille associate che per entrare nel gruppo virtuale hanno dovuto mettere on line almeno una foto da nude.
In internet, non ci sono nuovi modelli in azione. Si riproducono gli archetipi della cultura di massa e dei consumi che ha messo la merce sul piedistallo delle Esposizioni universali dell´Ottocento. Nel Novecento, poi, i media si sono evoluti nella stessa direzione: da un uso collettivo, comunitario, al consumo solitario – che dà l´illusione di usare, mentre si finisce comunque con l´essere usati». Fra i tanti esempi citati nel libro, c´è quello di un quartiere residenziale di Londra, Haberdasher, dove gli abitanti si sono dotati di monitor domestici collegati a dodici telecamere che filmano l´intera zona. Così controllano chi si avvicina. «Ma appena escono», sottolinea Codeluppi, «sono loro i controllati. E persino chi crede di dare valore e realtà alla propria identità filmandola e diffondendola, magari installando web-cam sempre accese in tutta casa, secondo me non ci riesce.
Non credo proprio che si possa avere un comportamento spontaneo: stai comunque recitando te stesso». «Lì, davanti alla vetrina, l’individuo occidentale ha imparato però soprattutto una fondamentale modalità di rapporto con il mondo». Dunque la vetrina non è soltanto il primo palcoscenico della merce che la nascente società industriale mette in scena per mostrare al suo nuovo pubblico di massa se stessa e i sui prodotti. È qualcosa di più, è appunto il vettore di una nuova modalità di rapporto con il mondo. La vetrinizzazione sociale, che è poi vetrinizzazione del sociale, rappresenta cioè un vorticoso processo di sconfinamento della logica espositiva dalla cornice circoscritta della vetrina nel territorio complessivo della metropoli prima, nelle pratiche e nell’immaginario del sistema mediale poi e infine nei tessuti del corpo stesso di uno spettatore-consumatore divenuto esso stesso, contemporaneamente, la vetrina e la merce che in essa è esposta. Quella della vetrina si impone allora, seguendo il percorso di Codeluppi, come la storia di una tecnologia caratterizzante che progressivamente permea con le sue metafore le diverse dimensioni dell’abitare: quella urbana, facendo della metropoli tutta una mostruosa supermerce; quella fisica, confezionando il corpo stesso in un packaging sfavillante e trasparente; quella mediale, aprendo un passage tra «ribalta» e «retroscena» (Goffman) che se-duce direttamente in quella che Jean Baudrillard ha definito la «fase video»; e, in conclusione, seppur in modo imperfetto, quella della morte, anch’essa divenuta feticcio vetrinizzato e consumabile. Inizialmente dunque, in un processo ancora oggi in atto, la logica spettacolare della vetrinizzazione è fuoriuscita dalla cornice della finestra del negozio per diffondersi con mirabile virulenza nella città, andando a riempire con il suo spettacolo ogni interstizio dell’allora nascente spazio metropolitano. È lo schermo-soglia della vetrina, la sua profondità superficiale a porre come principio organizzativo della città non più l’ordine, ma l’offerta (Alain Bourdin).La seconda cornice spezzata dal processo di vetrinizzazione sociale è, come accennato, quella che delimitava il confine tra lo spazio visibile della «ribalta» e quello nascosto del «retroscena». La vetrina, con la sua trasparenza assoluta, è il primo medium a illuminare quelle zone della vita, della metropoli, del sociale, che fino a quel momento avevano ancora potuto riservarsi una zona d’ombra. Il reality televisivo e le nuove spazialità pubbliche-private della rete non sono altro allora che l’ultima avventura di quella colonizzazione voyeuristica dell’invisibile cominciata più di due secoli orsono dallo spettacolo della vetrina. Dalle Città Invisibili alle Aziende In-Visibili, appunto.
(continua)