Pino Varchetta su: Sogni e delitti (regia di Woody Allen)
La città da sempre capitale insulare del continente si distende enorme alle foci del fiume, bella, carica di memoria, scrigno di una tradizione secolare, libera da condizionamenti, orgogliosa, ma capace, sembra, di accettare il moderno e il contemporaneo. E questo da sempre. In questi ultimi anni, tuttavia, questa sua voglia di riemergere, di competere con l’altra grande capitale continentale a qualche centinaio di chilometri nel paese da sempre amico-nemico, è ricomparsa poderosa, quasi caratterizzata da quella capacità di contrapporsi agli altri e di vincere, che da sempre è competenza distintiva di questa gente.
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E così, sia nel cuore dell’area degli affari, sia nelle periferie più abbandonate, sono sorti edifici splendidi, ponti, torri, grattacieli, teatri, biblioteche, che si rinfacciano quasi cercando un dialogo con i vecchi edifici delle memorie reali e imperiali, culla della democrazia occidentale. Qualcuno parla di sintesi felice, qualcuno indica il dilatarsi di una frattura, quasi che la città si stia dividendo in due corpi, quello delle antiche tradizioni, con gli edifici un tempo corruschi, ora opachi, e quello contemporaneo, cresciuto forse troppo in fretta, scintillante, vetro-cemento, alto verso il cielo. E’ difficile dare ragione agli uni o agli altri. E’ forse più facile convincersi di una diffusa opacità, forse di un cammino da percorrere verso una sintesi magari a portata di mano, ma non ancora compiuta. Le città contengono le storie delle donne e degli uomini e questa storia è quella di due fratelli che hanno varcato i limiti di un’etica antica e che non sanno tornare indietro. Apprende subito lo spettatore attento che i due fratelli difettano di coscienza; mancano, in altre parole, di una profondità interiore che possa consentire a loro di avere un certo rapporto col mondo che li circonda. Scivolano quasi impercettibilmente ma inesorabilmente dentro il male, trascinati da meschini bisogni privati che li accomunano, pur nella loro profonda diversità. Sono infatti diversi i due fratelli: l’uno, Terry, sembra riferirsi a una cultura operaia, alla tradizione antica della grande città; l’altro, Ian, un negativo eroe postmoderno, vive di traffici più immaginati che reali e si staglia contro le muraglie vetro-cemento della città nuova. I due fratelli delinquono insieme, ma non comunicano tra di loro, rispecchiando in questo la frattura tra le due parti della grande città, quella della tradizione e quella nuova, incapaci di confondersi in una sintesi sapiente. La vicenda rotola verso l’orrore con una inesorabilità che schiaccia lo spettatore in sala in un dolore totale, per molti aspetti insostenibile. La macchina da presa sembra non reggere quello che sta per raccontare e si allontana pudica, come di fronte all’insopportabile. “Adesso è ancora adesso”, sosteneva all’inizio della storia Ian, il fratello postmodern, sicuro del progetto delittuoso, a Terry, il fratello meccanico di bottega, più indeciso e dopo il delitto pervaso da un senso di colpa insostenibile. I due fratelli scompaiono attratti inesorabilmente dallo stesso gorgo che hanno contribuito a scavare e un trionfo orrido premia l’istigatore, il committente di tanto orrore, lo zio, fratello della madre, uomo ormai vecchio, lurido contenitore dell’orrore della nostra contemporaneità, premiato vincitore del crimine e della colpa, orribile testimone che “adesso è ancora e sempre adesso”. E la città divisa, attonita, resta a guardare, incapace di una qualunque risonanza.
Postato dalla personalità mutante di: Pino Varchetta