Recensione al film Cous Cous (regia Abdellati Kechiche) curata da Pino Varchetta per la serie Le Aziende Nascoste.
La città – è una città di mare – si espande vorace, insaziabile di spazi nuovi. Supera d’un balzo rogge, fiancheggia torrenti, corre vorticosa lungo calanchi, assalta colline. Le spiana e rubando intermittenze al vento che soffia dalle montagne lontane, invisibili, crea un solo suono, un coro sommesso, di voci che suonano solo maschili dal timbro monotono, prevedibile. Sembra senza fine la città vorace come può essere la memoria del nostro passato. Si ritorce e sovente torna sui propri passi, senza dar segni tuttavia di un vero ri-credersi. Afferma infatti la città vorace che le città non si pentono. Si aspettano la città il pentimento delle donne, degli uomini. Le sue azioni si connettono una all’altra lontane dal senso, il suo pensiero non è mai nato. Non ha orecchi e occhi la città vorace: le sue porte e le sue finestre sono senza vista e udito, incapaci di cogliere suoni, di percepire ombre. Vive e si nutre la città vorace delle sole voci e del solo pensiero delle donne e degli uomini che in essa vivono, talvolta assorti, sempre pensosi, e il loro parlare corre per gli spazi aperti, non trova ostacoli fino a diventare un solo suono, poltiglia di timbri diversi ora sodali nell’unica vibrazione che avvolge, portata dal vento delle montagne lontane, i colori diversi dei volti delle donne e degli uomini, gli abitanti della città vorace. Parlano tutti molto e i loro canti risuonano a lungo per cancellare la paura del silenzio che cresce giorno dopo giorno nella città vorace, come i topi crescevano in Orano, la città felice. I segni del nostro tempo sono arrivati anche nella città vorace e il lavoro delle donne e degli uomini diventa sempre più spesso un recinto dove il vento delle montagne reca dense inquietudini. Donne e uomini che erano cresciuti comprendendo il loro vivere quotidiano attraverso le esperienze di lavoro, sono ora smarriti e si riparano ampliando il loro tempo con il parlare dentro di sé e con gli altri. E le parole diventano frasi e le frasi diventano trame colme di nostalgia e di desiderio. E la città vorace ferita dalle novità del nostro tempo si riempe così di voci umane instancabili, una cinta muraria mobile, benda invisibile per le ferite nuove dentro le case di un tempo passato. E se qualcuno, forse un poeta, volesse narrare il tempo nuovo della città vorace, non dovrebbe porsi misura e freno a quel mare di voci umane che sta sommergendo la città vorace; dovrebbe, all’opposto, porsi attento in disparte e ascoltare le risa e il pianto, riconoscere l’eco. E, qualora si imbattesse in una storia di cibo e di amore, dove si parla di graine e mulet, gli ingredienti base della ricetta del cous cous, dovrebbe avere pagine e pellicola senza limiti, senza distanze narrative, non preoccupandosi di raccontare coerentemente ma piuttosto di avere una presenza continua e diretta, quasi calandosi a caldo, accanto ai suoi personaggi, e soprattutto alle voci femminili. Dovrebbe sentire in quelle sequenze di ingredienti e di spasmi lo sforzo di imbrigliare un desiderio e di dominare fasci di energia di donne e uomini, che dentro la città vorace sono alla ricerca di loro stessi, per recuperare il loro mondo, in modo che non venga del tutto perduto. Al coraggio dei personaggi della storia di cibo e di amore che il poeta ha incontrato, deve corrispondere, infatti, il suo coraggio nel sostare a lungo accanto a loro, senza perdere del loro parlare, del loro urlare, neanche un fiato.
Postato dalla personalità mutante di: Pino Varchetta