Paolo di Stefano nell’arco di una settimana (16 e 22 gennaio) ha pubblicato sul Corriere della Sera due recensioni del volume di Arturo Mazzarella, studioso di letterature comparate, La grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale (Bollati Boringhieri, pagg. 128, €15). Il 17 era apparso su La Stampa un altro articolo di Marco Belpoliti. Queste recensioni ruotano intorno all’idea che “Nel ‘67 esce Cibernetica e fantasmi di Italo Calvino, vero e proprio manifesto della nuova letteratura; tuttavia ad accorgersene sono in pochi.
Su questa strada, che coniuga comunicazione e letteratura, moltiplicazione del punto di vista e virtualità, si sono già mossi Beckett e Borges, seppur con esiti diversi e persino opposti. E, prima di loro, Henry James ha messo a punto alcune delle svolte decisive del Novecento…. Secondo Mazzarella, per orgoglio di casta personaggi come Franco Fortini e Pietro Citati hanno continuato a riconfermare il paradigma incontrastato del sapere umanistico, anche quando appariva ormai privo di rilevanza. Sostenitori della letteratura come unico viatico di conoscenza piena e assoluta appaiono, a detta di Mazzarella, Asor Rosa, Giulio Ferroni, Claudio Magris, George Steiner, Marc Fumaroli, vestali di un’idea di «Belle lettere» tramontata da un pezzo. Mentre scrittori come Kundera e DeLillo, dopo Calvino e Borges, e poi Martin Amis, Houellebecq – ma anche Manganelli, Landolfi, Volponi e Gianni Celati – hanno dimostrato la fine dell’unico punto di vista, la dissoluzione della visione cartesiana, evidenziando nel contempo la porosità del reale e l’idea del caos non come disordine, bensì velocità di scorrimento del reale stesso, le istituzioni letterarie continuano a perpetuare un’idea conservatrice, se non proprio reazionaria. ” Concetto rafforzato da Paolo di Stefano che chiude il suo secondo articolo osservando che “il management industriale sa che sono i filosofi, non gli scrittori ,ad avere espresso negli ultimi decenni capacità immaginative straordinarie”.
Si tratta di un dibattito attualissimo in cui credo valga la pena di collocare il nostro romanzo collettivo Le Aziende In-Visibili. In primo luogo credo vada ricordato il testo di Francois Lyotard La condizione postmoderna (Feltrinelli, 1979).
Qui si tematizza la fine dei “grandi racconti” che hanno orientato trasversalmente i saperi moderni. Oggi, dice Lyotard, siamo in una condizione frantumata e disseminativa dei saperi, che, come ha ben riassunto Franco Cambi, “hanno perduto Unità e Senso.
Essa produce, però, ‘sensibilità per le differenze’ e ‘capacità di tollerare l’incommensurabile’, rivolgendosi alle ‘instabilità’. La legittimazione dei saperi si ottiene per ‘dissenso’, per ‘mosse’ anche audaci, in un modo che si lega all’’anti-modello di un sistema stabile’.
A questi fondamentali riferimenti se ne dovrebbero aggiungere molti altri, fra cui
il concetto di complessità elaborato da Edgar Morin e da una folta schiera di epigoni,
la visione della modernità liquida di Bauman e della modernità riflessiva di Beck,
la teoria dei non luoghi di Augè e quella del genius loci di Trupia,
il sensemaking descritto da Weick,
l’effetto Medici scoperto da Johannson,
l’ascesa della nuova classe creativa celebrata da Floridia.
E ancora le riflessioni di Levy sul virtuale, di Virilio sull’arte dell’accecamento, di Kevin Kelly sulla necessità attuale di guidare le organizzazioni senza averne controllo, di Castells e Rullani sull’economia delle reti, di De Masi su fantasia e concretezza…Insomma, un lungo elenco.
Ciò che qui mi preme sottolineare, però, è che questo insieme di apporti, pur essendo entrato nel dibattito svoltosi su moltissimi tavoli diversi, specialistici e trasversali, negli ultimi trent’anni, di fatto non si è tradotto in pratiche narrative veramente nuove, almeno per quanto riguarda i due versanti che più mi interessano, quello artistico (letterario, in particolare) e quello manageriale. Certo sempre più spesso studiamo saggi di sociologia o di management che traggono ampia ispirazione dai lavori di filosofi e romanzieri, e, viceversa, leggiamo romanzi o assistiamo a film o spettacoli teatrali in cui si prendono a prestito linguaggi, temi e tecniche di scrittura dalle discipline più disparate.
Ma si tratta nel migliore dei casi di contaminazioni, miscellanee più o meno riuscite, spesso mere giustapposizioni (il giudizio critico vale innanzitutto per i lavori sopra citati che io stesso ho realizzato), generalmente intruppate nell’onnivoro concetto di postmodernità, che come ogni post è in realtà una trappola linguistica. Strictu sensu, postmoderno significa “ciò che viene dopo il moderno”: e cosa viene dopo il moderno? Tutto e il contrario di tutto. E’ come se, andando a cena da amici, vi pungesse la curiosità di chiedere: “Ottimo questo risotto, quale è la prossima portata?”, e la risposta non fosse “carne”, o “pesce”, o “salumi”, ma: “il postrisotto”.
Sotto questo aspetto, l’auspicio espresso nel suo ruolo di critico della letteratura da Belardinelli, ovvero che si possa transitare dall’ormai usurato concetto di postmodernità ad una pratica narrativa radicalmente mutante, che sia al tempo stesso in grado di dialogare con il patrimonio letterario del passato, prossimo e remoto, guardando tuttavia al futuro, può credo più generalmente tradursi nella tensione verso un modo di leggere, interpretare ed infine gestire la realtà che sappia superare vecchie tassonomie e modelli mentali.
L’approccio collettivo e metadisciplinare che ha presieduto alla stesura de Le Aziende In-Visibili, in maniera ancor più programmaticamente marcata che in tutte le precedenti esperienze dello Humanistic Management, il cui bagaglio concettuale ormai può tranquillamente proporsi quale vero e proprio Humanistic Mindset per la (tentativa) comprensione, a trecentosessanta gradi, del mondo in cui viviamo, ha l’ambizione di affermarsi come una possibile modalità pratica di scrittura mutante, che travalica le distinzioni fra scrittori e manager, fra sociologi e attori, fra musicisti e designer, fra filosofi ed economisti, cercando di trovare un terreno comune di intesa che sarà poi possibile declinare attraverso specifici linguaggi e svariate tecnologie di comunicazione ed espressione (si veda ad esempio proprio questo nostro Metablog in cui i temi del romanzo vengono discussi e approfonditi con le modalità tipiche della Rete).
Per altri versi, il nostro romanzo collettivo può essere iscritto nell’ambito di quell’“estetica neobarocca” individuata da Omar Calabrese in Caos e bellezza come caratteristica delle opere d’arte contemporanee. Sostiene Calabrese che “lo spirito della contemporaneità coincide con la messa in dubbio di una cultura fondata sulle narrazioni che diventano prescrizioni”, facendo anch’egli leva sul classico testo di Lyotard.
E’ evidente il parallelismo con la necessità di abbandonare i paradigmi “scientifici” per sviluppare un nuovo tipo di discorso: “Un discorso”, ho affermato appunto nelle Variazioni Impermanenti che aprono il Manifesto dello Humanistic Management, “che ci parli di come si coglie l’emergere del nuovo, di come si impara a imparare, di come si è determinati dal mondo a cui apparteniamo, e allo stesso tempo di come il mondo è (anche) frutto di un nostro contributo creativo…di come dunque riavviare una riflessione sui fini, oltre che sui mezzi; che metta al centro l’“arte”, quale ci è mostrata in massimo grado da poeti, romanzieri, drammaturghi: da “umanisti” nel senso rinascimentale, narratori di storie, “facitori di senso” (sensemakers) tramite il romanzo, la poesia, l’autobiografia, il teatro, il cinema, ma anche i computer e persino la televisione”.