Anche oggi su La Repubblica (pag. 45) Maurizio Ferraris non perde l’occasione di ironizzare sull’aspirazione all’autenticità e alla sincerità “postmoderne” dei Nativi Digitali, rivendicando il valore del cinismo di chi guarda alla “verità dei fatti”: l’ “essenziale è la realtà con la sua durezza”. Una volta di più, una conferma dell’opposizione radicale al percorso epistemologico che stiamo seguendo rivisitando con Alice le sue avventure oniriche in mondi immaginari (cfr.
Chi è nel sogno di chi? – Alice annotata 22a, I nostalgici del pensiero forte – Alice annotata 22b, Amleto e la verità dei fatti – Alice annotata 22c, La misura dei fatti – Alice annotata 23).
C’è tuttavia un punto su cui mi sembra gli alfieri del Nuovo Realismo e la nostra Alice Postmoderna possano trovare una conciliazione. Partiamo pure dalla “critica dell’idea che tutto sia socialmente costruito, compreso il mondo naturale. Sotto questa prospettiva – scrive ancora Ferraris – il libro di Searle La costruzione della realtà sociale (1995) è stato un punto di svolta. In Italia, il segnale è venuto da Kant e l’ ornitorinco di Eco (1997), che vedeva nel reale uno “zoccolo duro” con cui necessariamente si tratta di fare i conti, portando a compimento un discorso avviato all’ inizio degli anni Novanta con I limiti dell’interpretazione”. Come ha scritto Emanuele Severino in un bell’articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 31agosto 2011, è ovvio che non è possibile “con la sola forza della riflessione, correggere le illusioni ottiche, o cambiare i colori degli oggetti che ci circondano e che … se uno va dal medico, sarebbe certo felice di avere solidarietà, ma ciò di cui soprattutto ha bisogno sono risposte vere sul suo stato di salute. E quelle risposte non possono limitarsi a interpretazioni più o meno creative: devono essere corrispondenti a una qualche realtà che si trova nel mondo esterno, cioè, nella fattispecie, nel suo corpo”.
Ne La Mente InVisibile riprendo esplicitamente la questione, mettendo in bocca a Deckard alcune affermazioni “neo-realiste” di Umberto Eco durante una discussione con le due sorelle Archer: “Il mondo è unico, è un universo. Quando parliamo di altri mondi possibili o di altri modi di essere del mondo, parliamo di favole, ipotesi, finzioni”. “Invecchiando, caro Deckard, scoprirai, invece, proprio l’opposto. Il mondo non è unico: il possibile ne fa parte integrante. Il mondo è fatto di mondi, di opzioni diverse, di influssi sottili fra ciò che è visibile e ciò che non lo è. L’universo è un pluriverso, in cui il martello di ogni nostra azione sprigiona mille scintille, una per ogni significato che possiamo attribuire ad essa”. “No, grazie, tieni pure per te il tuo misticismo romantico. Il mondo è fatto di materia e la materia è dura e se ci sbatti contro ti fai lividi o ti procuri delle ferite”. “Sbagli ancora. Il mondo ha ben poco di materiale, gli atomi che lo costituiscono non sono cose. Sono vivi, attivi, e non cessano mai di ridefinirsi nel corso del tempo: non solo del tempo che è, o è stato, ma del tempo che non è stato, ma che avrebbe potuto essere, o che sarà, o che qualcuno ha finto che sia o che possa essere. Il mondo è un racconto che dobbiamo ruminare, re-interpretare sempre, di continuo”. Non sapevo ancora, allora, di avere torto”[i].
In altre parole, un conto è la critica, condivisibile, a quella che Ferraris definisce “la fallacia dell’essere-sapere”, ovvero la confusione fra ontologia ed epistemologia, un altro è parlare negli stessi termini di relazioni fra esseri umani. Qui le cose cambiano radicalmente rispetto a quando i rapporti riguardano oggetti o corpi naturali (come le ciabatte, i cani, i vermi e l’edera protagonisti degli argomenti di Ferraris proposti nel capitolo secondo del suo Manifesto).
E non si può liquidare la questione come un banale esercizio di “benaltrismo” (“che consiste – spiega Ferraris in uno specifico paragrafo del capitolo terzo del Manifesto– nel considerare che possiamo trovarci tutti d’accordo sull’esistenza di tavoli e sedie, ma che le cose filosoficamente importanti sono ben altre). Quando dobbiamo trattare con “l’eccezione umana” (per usare una felice espressione di Ugo Volli) la faccenda è un po’ più complicata. Non si tratta neppure semplicemente di riconoscere, come fa Ferraris a p. 74 del suo Manifesto, che “nel mondo sociale l’epistemologia è determinante rispetto all’ontologia, poiché qui quello che pensiamo, quello che diciamo, le nostre interazioni sono decisive”: ad esempio un mutuo o un divorzio “esistono” per gli esseri umani implicati, ma non per un castoro o un cane. Ferraris tenta di ricondurre tutto alla documentalità, ovvero all’oggettività di transazioni di carattere giuridico: “i postmoderni hanno sostenuto una forma di irrealismo degli oggetti sociali, che è ciò che sta alla base della tesi secondo cui la postmodernità sarebbe una realtà liquida ed evanescente. Attraverso l’analisi delle caratteristiche specifiche degli oggetti sociali emerge invece che la società è tutt’altro che liquida: è fatta di oggetti come le promesse e le scommesse, il denaro e i passaporti, che spesso possono essere più solidi dei tavoli e delle sedie, e dai quali dipende tutta la felicità e l’infelicità delle nostre vite. Ne sanno qualcosa, purtroppo, coloro che hanno acceso dei mutui a tasso variabile o si sono giocati in borsa i loro risparmi (p.76)”.
Certo se tutto si riducesse a questo la tesi paradossale sarebbe dimostrata: la postmodernità è solida tanto quanto la modernità, con la quale finisce per confondersi. Ma Ferraris continua a sfuggire dal punto chiave: la costruzione individuale e collettiva di senso coinvolge i sentimenti, le sensazioni, le emozioni degli esseri umani, che non sono imbrigliabili in una formula, in un documento o in una fotografia (vedi il post Il tagging come produzione collettiva di senso- Alice annotata 21b). Gli oggetti sociali liquidi e impermanenti che determinano “la felicità e l’infelicità delle nostre vite” non sono, ad esempio, il matrimonio o il divorzio in quanto atti giuridici formali: ma sono i sentimenti, i ricordi, le speranze e le delusioni che gli individui (non solo i due contraenti, ma anche i loro genitori, amici, figli e magari se sono famosi fans e ammiratori sparsi per il mondo) nutrono rispetto a quegli atti, il continuo “mutare di segno”, ovvero l’impermanenza, di quei sentimenti, ricordi ed emozioni (vedi il post Wislawa Szymborska: felicità individuale e invidia collettiva, le interazioni che si determinano in base a quei sentimenti, ricordi ed emozioni impermanenti, l’ambiguità (cfr. L’Ambiguità che favorisce la comunicazione – Alice Annotata 18a) che è parte integrante di quelle interrelazioni, eccetera.
Cerco di spiegarmi meglio ricorrendo alla letteratura. Nella loro ostinata (e un po’ ottusa) ricerca dei “fatti”, i “pensatori forti” cadono in quella che ho definito l’illusione di Robinson, tipicamente tayloristica e conservatrice, che tutto possa essere ridotto a numero, a quantità (vedi su questo anche la Nota 8b). E’ l’approccio riduzionistico alla complessità. Robinson Crusoe fin dalla sua apparizione è stato celebrato da autori come Rousseau e Kant e significativamente Marx lo individua quale archetipo perfetto dell’approccio borghese nei confronti del mondo alle origini del capitalismo, analizzato magistralmente da Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni, testo a sua volta diretto precursore degli scritti di Taylor. Il suo approccio esistenziale è basato sulla fiducia che il mondo possa essere dominato nella misura in cui è possibile pesarlo, quantificarlo, valutarlo. Pensiamo all’incipit del romanzo. La nave su cui l’eroe di Defoe navigava è naufragata vicino ad un isola a cui Robinson approda. Non appena in forze egli costruisce una zattera e la carica con cibi e oggetti abbandonati sul relitto: mano a mano li dispone ordinatamente sulla spiaggia, enumerandoli con compiaciuta pedanteria. Anche in questa situazione estrema, ha osservato Pietro Citati, “ciò che egli (Robinson) vuole, prima di ogni altra cosa, è misurare: misurare lo spazio e il tempo; e perciò nessuna delle sue spedizioni sulla nave è più importante di quella in cui porta a riva l’inchiostro, la penna, la bussola, gli strumenti matematici, le carte geografiche. Sa che l’ordine e la misurazione sono le fondamenta della civiltà occidentale.. e che così non obbedisce soltanto allo spirito borghese. Obbedisce soprattutto allo spirito di Dio, il Grande Misuratore, che divide la sua vita in periodi perfettamente simmetrici, secondo la legge sovrana del numero.”
Che differenza dal disordine (diciamo pure dal caos) in cui si muove Alice (e amato anche da Wislawa Szymborska)! Ma che differenza anche con il tatto e il rispetto con cui Alice tratta tutti gli esseri viventi che incontra, mentre, quando Robinson deve confrontarsi con un altro essere umano (Venerdì) sa solo ridurlo in schiavitù, cioè trattarlo come un oggetto. E’ significativa poi un’altra differenza. Alice dialoga incessantemente non solo con gli altri, ma anche con sé stessa, mettendosi alla prova, facendosi domande, verificando persino la possibilità di avere assunto identità diverse (proprio come i Nativi Digitali con i loro avatar e nickname). Probabilmente questa sua capacità di scindersi in due la ha ereditata dal “padre” Lewis Carroll-Charles Dodgson, ma, come i Nativi Digitali, la scissione e ricomposizione continua di queste identità è la fonte della creatività che consente di trovare sempre nuovi significati. Robinson al contrario ha sempre il problema di riportare tutto ad un ordine unico, tanto che ad un certo punto non esita a trattare in maniera ragionieristica persino i suoi sentimenti e le sue sensazioni, disponendoli su due colonne come in una partita doppia (lo spettro di Fantozzi aleggia fin dagli albori dello scientific management):
MALE: Mi trovo gettato su di una orribile isola deserta, privo di qualsiasi speranza di salvezza.
BENE: Ma sono vivo, invece di essere morto annegato, come l’equipaggio della nave.
MALE: Sono stato diviso dal mondo intero e prescelto, per così dire, per una vita di infelicità.
BENE: Ma sono anche stato prescelto, fra l’equipaggio della nave, per essere salvato dalla morte e Colui che miracolosamente mi ha salvato dalla morte può anche liberarmi da questo stato.
MALE: Sono separato dall’umanità, solo, bandito dalla società dei miei simili.
BENE: Ma non mi trovo, morente di fame, in un luogo sterile che non mi offra nessuna possibilità di nutrimento.
MALE: Non ho vestiti per coprirmi.
BENE: Ma vivo in un clima caldo, e, se anche avessi abiti, non li potrei portare.
MALE: Sono indifeso e non ho mezzi per resistere agli attacchi degli uomini e delle bestie.
BENE: Ma sono stato gettato in una isola dove non vedo bestie feroci che mi possano fare del male, come quelle che vidi sulla costa dell’Africa; che ne sarebbe di me se avessi fatto naufragio su quelle coste?
MALE: Non c’è un’anima con cui possa parlare e che mi possa confortare.
BENE: Ma Dio, miracolosamente, ha mandato vicino a riva la nave, da cui ho potuto ricavare tutto il necessario per i miei bisogni e tutto ciò che mi aiuterà a supplirvi finché vivrò.
E va avanti così per parecchie pagine. Questo schema mentale e operativo di tipo contabile e riduzionistico è vincente ma solo fino a quando il Robinson-imprenditore deve operare su un’isola deserta. Sotto questo riguardo, il suo agire non è neppure ascrivibile alla prima delle quattro tipologie di azione umana descritte da Habermas, nella sua Teoria dell’agire comunicativo, “l’agire strategico”. Si ha infatti agire strategico “se prendiamo le mosse da almeno due soggetti agenti, agenti in modo finalizzato, che realizzano i loro scopi mediante l’orientamento e l’influenza sulle decisioni di altri attori”. Secondo questa definizione, Robinson Crusue che, da solo sull’isola, agisce razionalmente rispetto allo scopo, non sta agendo strategicamente, giacché è il solo attore; si potrà dire che egli intraprende un agire strategico solo quando incontra Venerdì (e dunque gli attori sono due). Ma il rapporto di interazione tra i due si risolve rapidamente in quella che, per dirla con Hegel, potremmo definire come una “dialettica servo/signore”: certo non quella più adatta allo sviluppo dell’innovazione, alla valorizzazione di quella che Richard Florida chiama la “classe creativa”.
Un’ultima chiosa al pensiero di Ferraris. Il filosofo italiano, ricordando a sua volta Habermas, vede nel postmodernismo un’ondata anti-illuminista: “L’Illuminismo, come diceva Kant, è osare sapere ed è l’uscita dell’ uomo dalla sua infanzia”. Se con questo Ferraris intende il ritorno al mondo adulto taylor-fordista dove pochi esperti riuniti a Bonn decidono per tutti cosa è vero e cosa è falso, costruendo così una rappresentazione univocamente ideologica del mondo (vedi anche il post su Rampini e lo standard), bene, io preferisco rimanere nel mondo dei Nativi Digitali e di Alice che mi sembra molto più concreto e reale di quello agognato dai Nuovi Realisti.
A meno che non prendiamo il Manifesto del nuovo realismo, con la sua interpretazione rovesciata, ambigua e confusa, direi carrollianamente nonsensical, dei rapporti fra modernità e postmodernità (per cui la prima e non la seconda è libertaria, antidogmatica, tollerante, eccetera), per quello che al fin fine risulta essere: l’espressione estrema di quel postmodernismo ironico, liquido e nonsense cui in apparenza si oppone.
[i] La Mente InVisibile, pp. 313-314.