FALSE FRIENDS: LOCALISMO E IPERLOCALISMO

Cresce l’interesse per l’iperlocalismo, ovvero il giornalismo di quartiere: la rete che sembrava una retta puntata all’infinito, ora curva su se stessa, in una torsione localista che trasforma il mio back yard, il mio campanile, il mio paese, in un inaspettato nuovo (micro) orizzonte. E’ l’addio al globalismo, al web che teletrasportava ad ogni latitudine e longitudine? Si diceva “navigare”. Era come spogliarsi del vestito della propria identità, come recidere le proprie radici, azzerare la propria storia, immaginarsi proiettati in un mondo senza confini. Scoprire quel che succedeva a Hong Kong, sfogliare i titoli di un giornale americano, ammirare foto di luoghi esotici: il web come esplorazione simulata del mondo.


Su questa apertura al mondo non si è chiusa la porta. E’ semplicemente diventata quotidiana, già vista. Il mondo si è integrato nel flusso di informazioni ricevute e trasmesse ogni volta. Sebbene sia più facile raccontare la storia per fasi contrapposte, globalismo e (iper)localismo non sono da concepire come opposti. Possono coesistere in una visione più completa, che non sia soltanto una fortunata espressione linguistica come il “glocalismo”. Globalismo voleva, o vuole ancora significare apertura e perciò capacità di mediare tra le proprie appartenenze per entrare in molteplici insiemi, gruppi, associazioni, organizzazioni, movimenti. Se prevale la piega localista di rifiutare quest’apertura per infilarsi nuovamente in un sistema locale chiuso, allora l’evoluzione si smarrisce in una riedizione. Il localismo 2009 non può più essere la riedizione spolverata del campanilismo, con sottotitolo: come chiudersi nel proprio cortile e vivere felici. Questo scopo, che in fin dei conti costituisce tanta parte della vita italiana, può essere raggiunto pacificamente senza bisogno di vivere online. Proprio come succede da sempre. Chiesa, municipio, carabinieri, farmacista, panettiere, meccanico, postino, lavanderia. I soliti noti.

Ma il vero rischio per la rete non sono queste maschere classiche della commedia all’italiana. E’ piuttosto ritornare ad un tribalismo fondato su un gruppo primario chiuso, basato su un’identità forte del luogo, una delimitazione spaziale con barriere alte, una visione del mondo monolitica, una struttura interna rigida e l’incapacità, o la svalutazione, dello sforzo di esprimersi esternamente e interagire col mondo. Quello che oggi riaffiora come neo-tribalismo, sottoforma di tendenza a raggrupparsi, a fare comunità, con leadership, ruoli e rituali, può comprimere il nuovo iperlocalismo nel vecchio localismo.

Uno dei talloni d’Achille dell’attuale informazione locale è proprio questo: chiudersi in un flusso comunicativo che veicola una frazione minima della realtà locale. La causa è duplice: la tecnologia impiegata può “portare” solo un tot di informazione; la comunità stessa è assuefatta ad una visione statica, fissa, immutabile della sua realtà – perciò non domanda un incremento d’informazione. L’iperlocalismo non è un semplice update hi-tech della solita informazione locale. Fa sorridere vedere i tradizionali giornali che aprono canali Twitter dove fotocopiano il link del loro articolo di prima pagina. L’iperlocalismo apre nuovi circuiti per contenuti che non arrivano nell’informazione ufficiale. Ma soprattutto è la possibilità per tutti di diventare reporter perché testimoni diretti dei fatti o comunque protagonisti della vita locale.

E’ quasi istintivo slanciarsi nell’apoteosi di un concetto appena nato, come l’iperlocalismo. E’ altrettanto naturale ingegnarsi nel realizzare contenitori tecnologici per trasportare quel concetto nella realtà. Tuttavia il rischio è concreto ma non dovutamente calcolato: questo potenziale innovativo svanisce se prevale la logica vetero-localista di “murare” il locale nel suo spazio. Se l’informazione iperlocale diventa dominio di comunità locali ostili o comunque refrattarie allo scambio con l’esterno, che comunicano con propri codici linguistici, costruendo anche rituali e gerarchie, allora è come creare una cittadella. Ma il ritorno al localismo è l’abbandono dell’iperlocalismo.     

GABRIELE CAZZULINI