La città femminile

Pino Varchetta: Changeling (regia di Clint Eastwood)

Nel cielo dei registi John Ford e Sergio Leone con Don Siegel sono, ne sono sicuro, felicissimi e orgogliosi del loro erede e allievo Clint Eastwood, che ci ha regalato con “Changeling” in questo scorcio di avvio di stagione un altro anello della sua catena meditativa sulla nostra contemporaneità. A partire da “Potere assoluto” il vecchio Clint ha sviluppato via via le potenzialità nascoste del suo agente Callaghan, valorizzando al meglio la lezione dei suoi maestri, fino a diventare il più classico degli autori di Hollywood, forse l’unico, vero, genuino erede della grande tradizione classica di quel cinema che, dagli anni ’30 agli anni ’60, ha insegnato al mondo cosa sia la settima arte.

Una donna single nella Los Angeles degli anni ’20 – quella evocata da un altro grande film di Hollywood, ricordate?, “L.A. Confidential” – viene privata di Walter, il suo bambino. E’ una single, una donna che lavora, fa il capo intermedio in un’azienda di comunicazioni telefoniche, ha una sua vita privata: una creatura sulla quale si può aprioristicamente dubitare, costruire fantasie denigratorie. Tra il sistema politico e la polizia di Los Angeles vi è una fitta rete di collusione e di corruzione. In questa rete la mamma di Walter – splendidamente interpretata da una rigenerata Angelina Jolie – si perde, aiutata solo dalla testimonianza di un pastore di una chiesa cristiana, accusatore instancabile della dilagante corruzione cittadina. Il modulo  narrativo non cambia rispetto al film classico americano: un eroe solitario, in questa storia una eroina solitaria, contro tutti, contro istituzioni burocratiche corrotte e contro un’opinione pubblica che non può non ritorcersi contro la scelta di uno stile di vita non conformista. In questa lotta, come nel modulo classico hollywoodiano, l’eroina solitaria trova un aiuto, un atteso imprevisto, che l’assiste, passo dopo passo, nel suo procedere instancabile verso la sua verità, verso la sua salvezza. E il modulo classico si completa con la classicità del linguaggio cinematografico di Eastwood, ora pulito da ogni orpello, connesso a una serie di campi e controcampi splendidamente fotografati e ricomposti in un montaggio che non concede pause, pur senza far prevalere un carico eccessivo di emozioni per lo spettatore. La madre di Walter sa cosa deve fare, come sapevano cosa avrebbero dovuto fare l’allenatore della giovane pugile di “Million dollar baby”, il generale giapponese di “Lettere da Iwo Jima”, il ladro professionista di “Potere assoluto”, il giovane poliziotto in “Mystic river”. Tutti eroi solitari, contro mondo ostili, talvolta sordi, più spesso sordidi, sempre lontani. La critica, pur lodando quest’ultima fatica di Eastwood, ne lamenta, rispetto alle ultime prove, un certo distacco emozionale. Può essere, ma intatta resta la vigoria del giudizio etico, intatta resta la vicinanza del regista alla solitudine della sua eroina, intatta resta la fiducia nella vita dell’autore che fa dire – pur di fronte al dolore insostenibile di una madre che si è vista riportare dalla polizia corrotta un figlio che non è il suo ed è stata obbligata ad accoglierlo come se fosse suo – alla sua eroina, nel finale, parole di speranza verso un futuro incerto, ma dal quale lei sente potrà ritornare il suo Walter. L’eroina, la mamma di Walter, è capace di nutrire ancora la speranza, pur messa a conoscenza com’è stata dell’orrore impensabile e indicibile – le imprese nefande di un pedofilo demente – gorgo nel quale, quasi con certezza, è scomparso il suo Walter. Per tutta la durata del film il volto di questa donna è quasi sempre fotografato in mezza luce, con una parte visibile e l’altra parte chiaroscurata. Nel finale, spesso, il volto della protagonista si riflette in specchi e in vetri, quasi a far percepire allo spettatore che, accanto alla disperazione – pur mitigata dai riconoscimenti giudiziari positivi – può albergare, se non la gioia, la speranza.