La breve stagione del Morandi metafisico

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Piero Trupia

Euristica ed ermeneutica della figura XI

Dopo le case cieche di Morandi nei suoi paesaggi di Grizzana, passiamo alle nature morte.

Lunedì prossimo ci occuperemo delle sue composizioni più note di bottiglie caraffe, scatolette, conchiglie, palline. Oggetti su cui casualmente s’indirizzava il suo sguardo – una pallina era stata trovata per strada – e che lui custodiva a lungo nel suo studio, disponendoli e ridisponendoli fino al momento in cui, per composizione e per luce, si configurava un messaggio.

Questa volta però ci occupiamo di una morandiana fase zero della sua poetica – anni 1918 e 1919 – quando, con dieci opere, conquista una posizione di rilevo nella nascente pittura metafisica. De Chirico lo riconosce partecipe “del grande lirismo creato dall’ultima profonda arte europea: la metafisica degli oggetti più comuni.” (Introduzione alla mostra collettiva Fiorentina Primaverile, 1922)

Il periodo metafisico dell’arte italiana fu una reazione “classica” alla deriva nichilista della cultura europea. In pittura il nichilismo aveva portato, tra l’altro, alla frammentazione della luce e al disfacimento della figura dell’impressionismo francese.

I nostri metafisici, Carrà, De Chirico, Morandi e pochi altri, non se la sentivano di affermare il nulla. Affermarono invece le cose, gli oggetti più comuni, nella loro pienezza d’essere e nella loro inerenza ontologica al tutto. Il tramite dell’inerenza fu la luce: netta, tagliente, proveniente dall’infinito; non fredda però come l’ugualmente netta e tagliente, ma locale, luce fiamminga. Al contrario calda, carica di energia, profilante le cose nella loro corposa individualità e non adombrandole nella loro apparenza. Lo vediamo nella Natura Morta con Manichino del 1918 (Civico museo d’Arte Contemporanea di Milano).

Le sei presenze oggettuali qualsiasi sono assunte nella loro piena consistenza ontologica di esistenti. Non però heideggerianamente “gettati” (nell’esistenza), ma, al contrario, ben posizionati nello spazio, raccolti in sé, nettamente individualizzati nell’imponenza originaria architettonica di un dolmen. Forti di questo posizionamento nello spazio della composizione metafisica, gli oggetti sono consistentemente individuati nell’essere, tanto da non avere reciproca inerenza, non fare raduno con nessun’altra esistenza che non sia la loro. Sono per sé, sono metafisici. Se un raduno si configura, se un’inerenza si può cogliere essa è soltanto grammaticale, non testuale. Il risultato è però semantico;  un messaggio emerge. È quello parmenideo: “Ora, io ti dico […] quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: l’una che <è> e che non è possibile che non sia [..] l’altra che non è e che è necessario che non sia. E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende. Infatti,  non potresti conoscere ciò che non è [..] né potresti esprimerlo.” (Sulla Natura, Rusconi, 1998, Frammento 2)

P. S. Il manichino è un portacappello, semplice richiamo analogico dell’umano.

  • Piero Trupia |

    Anna Marina, hai colto il senso implicito in quello che ho scritto. Personalmente sono più stupefatto che scandalizato quando ascolto auterevoli filosofi affermare che viviamo in un’epoca postmetafisica. Ma cos’è questo post? Il post non è una risposta; è una domanda.
    L’arte fa apparire il metafisico negli oggetti più ordinari – Montale li chiama i “triti fatti” – e fa risplendere in essi l’esssere che è verità, che è appagamento.
    La tecnica serve a “fare silenzio intorno”; l’ispirazione è il “contatto avvenuto dentro di sé”…e dentro la Santa Teresa del Bernini.

  • Anna Marina Storoni |

    Non credo di avere capito tutto. Sono d’accordo quando dici: “sono per sé. Sono metafisici”. Forse ogni pittura che vale deve cogliere il metafisico di ciò che rappresenta, nel senso che deve toglierlo dalla contingenza, fare silenzio intorno, esprimere un contatto avvenuto dentro di sé e non esprimibile altro che in forme e colori. La santa Teresa del Bernini potrebe essere un’artista.

  • Piero Trupia |

    Grazie, Angela per la necessaria messa a punto. Occorerebbe un lunga e forte riflessione. A caldo, e ingenuamente, mi viene di osservare che gli essenti non possono sostituire l’Essere, sostituirsi all’Essere, poiché anche in ciò sarebbero e resterebbero inerenti all’Essere, del quale sono intrisi e quando lo mostrano sono metafisici.
    E’ venuto meno l’Essere? E come facciamo a dirlo senza essere? Un essere necessario che, a occhio e croce, non dovrebbe essere tanto diverso dall’Essere.
    Non credo che la “e” minuscolo o maiuscolo cambi la sostanza della questione dell’Essere dell’essere.
    Forse però ho fatto confusione.

  • Angela Ales Bello |

    Il richiamo a Parmenide è suggestivo, ma è opportuno indicare un importante spostamento di piani. L’ “è” di Paramenide è il “to ov”, l’Essere, qui invece gli essenti assumono assolutezza nell loro pluralità. Che si tratti di una sostituzione dell’enti all’Essere coerente con il venire meno dell’Essere? Gli enti assumono, allora, in questo caso la funzione di “esseri”, in questo senso sono “meta-fisici”.

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