Berlusconi accusa Veltroni di clonare il suo programma. Hillary accusa Obama: mi copia il programma (Primarie: Obama accusato di plagio, titola oggi il Corriere della Sera). Generally speaking sembra che in politica il Vecchio cerchi di contrastare il Nuovo accusandolo di non sapere generare nuovi significati, ma di tentare solo di rivestire usurate parole d’ordine con colori nuovi. E’ chiaramente la disperata linea Maginot di chi non capisce e non sa (o non vuole) rispondere al desiderio di cambiamento (Change! ripete ossessivamente Obama) che pervade prepotentemente due campagne elettorali sulla carta così diverse come quella americana e quella italiana. La battaglia divampa su questo punto (mentre paradossalmente nè gli americani nè gli italiani credo oggi sarebbero in grado di distinguere in concreto cosa distingua Hillary da Obama o Veltroni da Berlusconi, in termini di concrete politiche e attività di governo in caso di vittoria) perchè è nel sensemaking che insiste il segreto della leadership. Nella capacità di produrre e generare senso, a livello individuale e collettivo. Un segreto la cui scoperta richiede la stessa applicazione, il medesimo impegno della creazione letteraria, come dimostrano i dialoghi fra Marco Polo e l’imperatore.
Nell’accalcarsi delle immagini e dei segni che il veneziano propone a Kublai e nella fatica cui l’imperatore si costringe per cercare di decifrare ciò che ascolta e che si recita di fronte ai suoi occhi, prende forma la fatica della narrazione letteraria, il suo sforzo di costruire tra autore e lettore un senso che si sovrapponga alla vuota presenza dei fatti e che riempia il silenzio che si distende prima e dopo ogni narrazione. Fatica e sforzo che sono esattamente corrispondenti a quelli che gli imprenditori e i manager devono mettere in campo per creare e donare senso alle organizzazioni cui appartengono, pena il loro disfacimento. A questo proposito risulta estremamente significativo il fatto che Kublai Kan ascolta i racconti di Marco, ma non lo fa per gentilezza d’animo o per scoprire qualche nuova ricchezza o qualche territorio da assoggettare; lo fa perché si sente minacciato:
“Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a comprenderli; un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici […]: è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine, né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina“.
La minaccia avvertita da Kublai così come da tutti noi è il non senso. Tutte le immagini che Calvino raccoglie in queste prime righe del suo libro alludono al divenire reale di questa possibilità: vi è un momento nel vivere in cui l’espandersi libero dell’esistenza si ferma e chiede di scoprire un ordine in ciò che è stato, un senso che lo attraversi. Non è un momento felice: ciascuno di noi, nel suo essere imperatore di se stesso, scopre prima o poi il vuoto, il senso di vertigine, lo sfacelo senza fine, la corruzione ─ il non senso, insomma, come una minaccia che si insinua nel nostro impero e ne sconvolge l’ordine, rendendoci incapaci di coglierne la geografia e di tracciarne una mappa soddisfacente. Proprio per questo Calvino descrive il non senso come una minaccia che assume le forme cosmiche di un terremoto che scuote la nostra immagine della vita e del mondo: le groppe dei planisferi ─ la mappa ordinata che della vita ci siamo fatti ─ si scuotono e questo sussulto rischia di sbalzarci di groppa, proprio come spazza i contorni dei fiumi e dei mari che abbiamo disegnato. Il non senso è proprio questo: una sorta di disarcionamento cosmico che ci si sbalza dalla nostra immagine del mondo. La nostra mappa non ci permette più di orientarci e abbiamo il fondato timore di non saperne più disegnare un’altra che ci soddisfi. È a questa minaccia che la narrazione deve opporsi.
Come molti manager odierni, anche Kublai avverte la tentazione di sottrarsi alla fatica del sensemaking. Marco parla, ma Kublai sembra talvolta stanco di leggere i suoi racconti e vorrebbe stringere una volta per tutte il suo impero in una formula, averlo come un possesso chiuso per sempre: la vecchia utopia, si sottolinea in apertura di Nulla due volte, dello scientific manager come di quei generali romani immaginati da Szymborska che si sentono minacciati “da ogni nuovo orizzonte” e che, di fronte alla minaccia, non sanno che andare ciecamente avanti, nelle certezza disperata che “il mondo prima o poi deve pur finire” (Voci). Allo stesso modo, nonostante la sua ammirazione per il giovane veneziano, Kublai non sopporta la trama aperta delle sue narrazioni e vorrebbe cose dove invece sono soltanto parole, proprio come i responsabili delle organizzazioni descritte da Minghetti e Del Mare ne Le cose e le parole. Ma, come osserva Marco Polo, «non si deve mai confondere la città con il discorso che la descrive».
Per sfuggire al rischio del non senso Kublai tenta diverse strade, come diverse sono state le incarnazioni dello scientific management nel suo secolo di storia. Ad esempio ad un certo punto dice:
La mente del gran Kan partiva per suo conto e smontava le città pezzo per pezzo, le ricostruiva in un altro modo, sostituendo ingredienti spostandoli, invertendoli – D’ora in avanti sarò io a descrivere le città, tu verificherai se esistono e se sono come le ho pensate ─
L’intento dell’imperatore è quello di proporre schemi e modelli, da smontare e ricostruire, combinandone e variandone le strutture interne, conferendo ad essi una sostanziale autonomia funzionalistica, schemi d’ordine a cui tutto deve essere ricondotto. La situazione da cui avevamo preso le mosse si è ribaltata: non è più l’esperienza, ma il potere combinatorio e intellettuale a garantire la mappa su cui poi dover ritrovare l’esperienza medesima. Abbiamo così Zobeide, città sognata e poi costruita, città quasi familiare poiché prevista, ma anche città brutta, città trappola. Che ne è infatti di questa proposta? Il sistema prevale cancellando le ragioni dell’esperienza, la costruzione si trasforma, come in Zobeide, in trappola, in inganno fine a se stesso.
Lo stesso capita quando Marco Polo “percorre” idealmente le vie delle città imperiali limitandosi ad annotarne le caratteristiche; davanti all’imperatore, evocando le sue esplorazioni, ricorda, osserva, descrive: presenta a Kublai resoconti, come quelli sulla città di Tamara, di Zora, di Zirma o di Maurilia. La forma che qui caratterizza le città è una forma statica, monotona, senza eccezioni, una forma immobile, nella cui staticità rischia però di esaurirsi e di affogare; l’assolutezza di cui essa è prigioniera nega ogni alternativa e dunque anche la possibilità di essere qualcos’altro rispetto alla descrizione che la sua stessa forma tratteggia. Ecco dunque un modo della forma, un modo dell’impero, senza scarti, senza imprevisti: per dominare basta qui nominare, riducendo ogni angolo, ogni via, ad un’univoca descrizione: è il modo prediletto dalla gestione “scientifica” del potere. Ma basta poco e questa forma del mondo inizia a sgretolarsi: le città sembrano dileguarsi nell’esistenza categorica ad esse attribuita dal resoconto, come Zora che
Obbligata a restare immobile ed uguale a se stessa per essere meglio ricordata, languì, si disfece e scomparve. La terra l’ha dimenticata.
Il discorso deve infine chiudersi se Kublai vuole stringere in mano una volta per tutte l’atlante del suo impero, anche perché «l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente». Di qui la sua volontà di stringere il nodo ─ una volontà da cui possiamo liberarci solo se lasciamo all’immaginazione il compito di circoscrivere la cornice di senso della narrazione e alla consapevolezza del narrare quella dimensione ironica cui in Nulla due volte si dedica un intero capitolo. In questo caso l’ironia si rivela nell’atteggiamento duplice che richiede la partecipazione al dialogo fra Marco e Kublai: da un lato dobbiamo credere ai racconti come se davvero illustrassero le città dell’impero, dall’altro sapere che sono soltanto racconti e che quindi disegnano un mondo irreale che non può essere messo più di tanto alla prova dei fatti. Il senso è fragile e non può essere giudicati dai fatti, perché è soltanto il tentativo di animarli di una trama narrativa, un modo di intenderli e leggerli:
─ Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi ─ chiese a Marco, ─ riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?
E il veneziano: ─ Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi.