La città lager, di Pino Varchetta
Un padre – siamo alla fine del film – in uno sperduto cimitero di montagna in Germania, comincia a narrare la propria storia alla figlia, una giovane donna in trepidante ascolto. Questo padre, cominciando a raccontare se stesso, forse “si salva”, superando quel torpore etico che ha caratterizzato troppi anni della sua vita.
Lo scorrere narrativo, le pagine della scrittura dei poeti lette ad alta voce, costituiscono in questo film lo spartiacque tra il buio di una coscienza sorda e stupida e la luce di un avvio di senso. Il pensiero contenuto nelle storie, il “pensiero narrativo” fornisce un’interpretazione degli accadimenti umani, proponendo storie nelle quali palpitano le intenzionalità dei protagonisti e si definiscono le variabili contestuali: ogni storia è così una proposta interpretativa di quello che le donne e gli uomini agiscono collettivamente e individualmente.
Alla fine degli anni ’50 un adolescente a Berlino incontra una donna sullo sfiorire della gioventù. Hannah, l’amante di Michael, è stata una SS, ha svolto con stolido, burocratico zelo, il suo compito, sorda ad ogni pietà verso le vittime innocenti. Hannah non è stata un mostro, carico d’odio: è stata un’ottusa esecutrice di ordini, nutrita da quella “banalità del male” nella quale la rigida osservazione del dettato procedurale e il terrore del rischio del disordine esecutivo, hanno prevalso su ogni stupore, su ogni ascolto. E’ morta dentro Hannah quando incontra Michael e la loro relazione è per lei solo sesso, inerte, non interessata a un confronto, alla scoperta dell’altro. Nessun essere umano conta abbastanza per Hannah per generare in lei sentimenti e cura vera. Tutto in lei è morto nel lager. Vi sono degli squarci aperti verso il mondo che attraverso la vitalità adolescenziale di Michael irrompono in quelle stanze e questo accade quando quel ragazzo legge per Hannah i suoi libri, dai classici omerici, fino alle novelle di Cechov. Hannah prima e dopo l’amore con Michael, quando ascolta la voce alta di quel giovane leggere quelle storie che lei non ha mai sentito, sembra poter riconoscere quel loro pezzo di vita come degno di essere vissuto e saper restituire un significato all’altro, Michael, dentro di sé.
Hannah viene arrestata e accusata di crimini compiuti durante il suo servizio nelle SS. Durante il processo tutto regredisce e Hannah banalizza quell’orrore dietro i paraventi del lavoro, dell’obbedienza cieca agli ordini, similmente lei dice come agiva da operaia prima dell’arruolamento nelle SS. Non c’è spazio in lei per gli altri, per quel dolore, quell’orrore. Si assume ogni responsabilità, rivendicando dietro l’obbedienza e l’efficienza il suo dovere a non interrogarsi “se questo è un uomo”, a non interrogarsi su se stessa e a concedersi una grigia banalizzazione della propria vita. Alla fine, quando decenni di carcere hanno fiaccato il suo grigiore, Hannah viene raggiunta – ed è la seconda volta che accade nella sua vita – dalla voce alta di Michael che, su nastri magnetici, registra storie, racconti, romanzi. A poco a poco la coscienza di Hannah sembra potersi aprire agli altri e il pensiero narrativo rompe barriere interne, apre all’attenzione, mescola l’ascolto delle altre storie con la sua storia, che le grigie pareti della cella sembrano rimbalzarle addosso, con crescente spinta a tentare di sentire cosa significhi essere un’altra persona. Consapevolezza, scoperta che conducono Hannah a un gesto liberatorio e forse salvifico, assistita anche in quest’ultima scelta dai suoi libri.
Film di volti, di corpi, The reader, gli spettatori schiacciati sulle poltrone dentro il buio del cinema, nell’interpretazione straordinaria di Kate Winslet, sentono la difficoltà di dire l’indicibile e di rappresentare la negazione dell’umanità: l’immagine in questo appare ancora una volta meno inadeguata del linguaggio parlato.