Abbiamo discusso spesso di come l’avvento del digitale in azienda abbia trasformato sia le funzioni aziendali che le professionalità coinvolte. Si tratta di un cambiamento accompagnato da molte incertezze, e che avviene a velocità diverse, nel confronto tra diverse industrie o aziende, oppure all’interno della stessa azienda, nel confronto tra diverse funzioni.
Come abbiamo ricordato parlando di #DigitalDistruption, il fattore tecnologico non è sufficiente a risolvere i problemi posti dalla serie complessa di fenomeni messi in moto dal Web 2.0: nel contesto odierno, in grado di mutare con una rapidità inaudita, perde relativamente importanza il capitale non umano, costituito da strutture e macchinari che diventano obsoleti con più rapidità. Acquista invece valore il capitale umano, definito dall’istruzione, dalle capacità, dall’esperienza e dall’addestramento di chi le strutture e i macchinari dovrebbe gestirli e guidarli.
Questo il concetto alla base di Le nuove professioni digitali, pubblicato da Hoepli), a cura di Giulio Xhaet e Ginevra Fidora.
A partire da una riflessione sulle sfide che la digital transformation impone alle aziende, il testo prova a fare chiarezza, spiegando le abilità sulle quali investire, e proponendo una panoramica delle professioni nate con il web 2.0, ossia quelle che si occupano di creazione, cura e gestione di contenuti, gestione e organizzazione di relazioni, promozione e advertising, analisi, ottimizzazione per i motori di ricerca, tutte legate a quello che viene definito “codice umanistico”: un nuovo linguaggio, che si integra al più noto codice informatico e lo completa. Non che si possa fare a meno dei programmatori, anzi. Ma per competere a livello nazionale e internazionale le aziende hanno sempre più bisogno di storyteller, marketer, comunicatori, di gestori di dati e, perché no, di filosofi e psicologi.
Più specificamente, scrivono gli autori, “abbiamo scelto le otto professioni che rispondessero ai seguenti criteri:
facessero parte del “codice umanistico” della Rete, quindi inerenti alle aree di comunicazione, marketing e creatività digitale;
fossero effettivamente “nuove”, o perlomeno recenti. E fossero effettivamente tra le più richieste nel mercato del lavoro. Per esempio, la figura del digital copywriter (spesso assimilata al più generico web editor) è presente online da tempo, ma è cambiata molto negli ultimi anni, ed è ancora richiesta. Lo stesso potremmo dire del SEO;
fossero di interesse sia per chi voglia lavorare in azienda, in agenzia o come libero professionista. Per questo abbiamo inserito il digital PR, che spesso non appare tra gli studi aziendali delle professioni più quotate, perché si tratta di un ruolo attivo soprattutto in agenzia e in modalità freelance;
fossero professioni dal taglio più operativo e concreto, e meno manageriale. Che avessero a che fare quotidianamente con contenuti, relazioni, dati, e meno con il coordinamento delle risorse. Ecco perché per esempio non abbiamo dato spazio al chief innovation officer, e invece al data scientist sì.”
Parliamo di tutto questo con la co-curatrice del volume Ginevra Fidora, che si è unita da poco al team OpenKnowledge.
M.M.: Per cominciare: a chi è rivolto il libro e quale intento si propone?
G.F.: L’obiettivo del libro è raccontare in una prospettiva inedita il ruolo, le attitudini e i talenti che dovrebbero possedere o acquisire i professionisti digitali di ogni ambito. Ci siamo soffermati sulle responsabilità caratteristiche e sulla necessità di integrazione e collaborazione con gli altri ruoli e le altre aree aziendali. Abbiamo cercato di individuare, per ogni figura, quali siano gli obiettivi da raggiungere, come si svolga operativamente il lavoro durante una giornata tipo e, dove possibile, quali siano gli stipendi medi in Italia e all’estero.
La casistica proposta è frutto di quanto abbiamo osservato nella nostra esperienza, di quello che viviamo ogni giorno nelle aziende (piccole, medie e grandi) con cui abbiamo la fortuna di lavorare o di collaborare. Non pretende di essere esaustiva, né tantomeno definitiva: lo scenario delle professioni digitali, oltre a essere vastissimo, continuerà rapidamente a evolversi nei prossimi anni.
Per questo, Le nuove professioni digitali può essere utilissimo a giovani e neolaureati per orientarsi in un panorama lavorativo variegato e complesso, ma è pensato soprattutto per imprenditori e responsabili HR, che vogliano avere le idee più chiare sulle soft skill su cui puntare per il prossimo futuro, oltre che sulle figure da inserire.
Da un’indagine che abbiamo condotto poco prima della pubblicazione del libro emerge infatti che c’è ancora molta confusione in proposito: le aziende, a volte anche quelle più grandi, vedono il digitale come qualcosa di altro, lontano dalla propria realtà e fanno fatica a formare o ad aggiornare il personale interno.
Per quanto riguarda l’inserimento di nuove posizioni, cercano di rispondere a esigenze contingenti, di solito riguardanti advertising, PR e social media, senza focalizzarsi sulle professioni meno “visibili” ma strategicamente altrettanto importanti: i web analyst, gli eReputation manager, i data scientist.
M.M.: Di cosa si occupano queste figure e perché sono così determinanti?
G.F.: Analisi dei dati di navigazione degli utenti, dei loro comportamenti e delle conversazioni, principalmente. Sono la base di qualsiasi strategia; senza di loro, si naviga a vista, con conseguenze che puoi immaginare.
M.M.: Come mai le aziende, in particolare quelle italiane, sono ancora così indietro? Quali sono le principali difficoltà che si incontrano nei processi di digital transformation?
G.F.: Da anni si parla di 2.0, qualcuno già arrivato a parlare di 3.0. Ciononostante, dalle ricerche emerge che sono ancora moltissime le aziende rimaste “analogiche”; inizialmente per scelta, memori della bolla della new economy: “no grazie, il web ci ha già fregato una volta”. Oggi la volontà di trasformazione c’è, la necessità del passaggio al digitale è avvertita praticamente in tutti i settori. Ma è difficile fare il primo passo.
L’equivoco nasce dal fatto che quasi sempre il termine digitale è associato al mondo dell’informatica, così spesso ci si concentra sulle infrastrutture tecnologiche, dimenticandosi che da qualche anno a questa parte internet è invece un luogo in cui si possono parlare diversi linguaggi, comunicare con diversi codici: non più solo quello informatico, a cui siamo abituati a pensare, ma anche quello “umanistico”, che comprende tutte le materie legate alla comunicazione e al marketing. Il codice informatico crea le infrastrutture, quello umanistico permette a tutti di esplorarle e di fruirne, creando, modificando, condividendo contenuti. Internet come lo conosciamo oggi non esisterebbe senza l’uno o senza l’altro.
La sfida principale, poi, non è l’adozione della nuova tecnologia, ma gli atteggiamenti, i comportamenti e le resistenze al cambiamento delle persone che lavorano in azienda. Se non capiscono per quale motivo dovrebbero sostituire le loro vecchie abitudini con le nuove soluzioni, se non ne vedono i vantaggi, sarà impossibile coinvolgerli e non esisterà piattaforma che potrà venire in aiuto.
Parafrasando un concetto espresso da Guy Clapperton e Philippe Vanhoutte nel loro The smarter working manifesto, i “behaviour” vengono sempre prima dei “byte”.
Bisognerebbe lavorare in tal senso sulle attitudini e su quella che chiamo intelligenza a misura di rete.
M.M.: Leggendo il libro, “intelligenza di rete” mi è sembrata una buona declinazione del concetto più ampio di Intelligenza Collaborativa. Vuoi spiegare meglio in cosa consiste?
G.F: Nel libro sosteniamo che, quando si parla di lavoro digitale, non siano tanto le competenze a fare la differenza, quanto le attitudini, in quanto le prime sono una conseguenza di queste ultime: l’adozione di competenze è relativa al singolo strumento, mentre l’assimilazione delle attitudini permetterebbe di padroneggiare tutti gli strumenti nel complesso.
Mi spiego meglio: vista la velocità con cui tool e soluzioni legate al web nascono e muoiono ogni giorno, per i nuovi professionisti digitali ha poco senso conoscere nel dettaglio il funzionamento di una piattaforma, senza aver acquisito l’approccio comunicativo e interattivo alla base di essa, e le attitudini necessarie a capire se, come e quando utilizzare quello strumento in un determinato contesto. L’intelligenza a misura di rete è appunto un insieme di caratteristiche e soft skill che permettono di adattarsi e di dominare le complesse dinamiche del mondo digitale. Ne abbiamo individuate 4 in particolare:
La resilienza, intesa come la capacità di adattarsi al cambiamento; la capacità di sfruttare le potenzialità della rete agendo in real-time; la capacità di vivere in modalità “all-line”, integrando cioè l’online con l’offline, e di progettare esperienze crossmediali e transmediali; l’attitudine a discernere, filtrare, curare i contenuti, per orientarsi nell’overload di informazioni a disposizione.
M.M.: Rimandiamo al libro per una descrizione esaustiva di queste skill. Possiamo però cominciare qui ad approfondire la prima, di cui si sente molto parlare, ma di cui non sempre è chiaro il significato: la resilienza?
G.F.: Resilienza” è un termine derivato dal lessico ingegneristico e indica la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia connota la capacità delle persone di far fronte agli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà.
Nel linguaggio digitale l’attitudine alla resilienza è sinonimo di una mentalità “in permanent beta”, ossia in costante evoluzione. Permette di:
adattarsi in fretta all’uso di nuovi strumenti e piattaforme, sapersi autoformare e aggiornarsi costantemente sulle novità del settore e su temi di attualità, in modalità “lifelong learning”;
saper cambiare rapidamente approccio per risolvere un problema;
affrontare i “cigni neri”, gli eventi inaspettati e improbabili ma di forte impatto sulle nostre vite. Tali situazioni sono sempre più frequenti, e questo proprio come conseguenza della sempre maggiore interconnessione tra persone e strutture a livello globale. Anche eventi che accadono dall’altra parte del mondo possono incidere sulle nostre attività quotidiane personali e professionali, con un impatto impensabile fino a pochi decenni fa.
M.M.: Puoi fare qualche esempio?
G.F.: Facciamo riferimento a qualcosa che tutti abbiamo toccato con mano di recente: quante sono le modifiche che abbiamo notato in Facebook o in Twitter solo nell’ultimo mese? I responsabili dei principali social media hanno dichiarato di apportare variazioni sostanziali agli strumenti in media ogni tre giorni! Se volete occuparvi di gestione di community, contenuti, relazioni non avete altra scelta che imparare velocemente.
Altro esempio: i più esperti sanno che negli ultimi anni Google ha modificato frequentemente il suo algoritmo, ossia la formula che analizza e determina la posizione di un sito web all’interno di una ricerca effettuata su Google stesso, stravolgendo ogni volta le regole alla base della SERP.28 Panda, Penguin, Hummingbird e così via (i nomi che Google ha dato ai suoi aggiornamenti)29 sono stati l’incubo di chiunque lavorasse con i motori di ricerca. Moltissime aziende sono fallite a causa di queste modifiche, e la professione del SEO (“Search Engine Optimizator”) è stata data per spacciata più e più volte. “SEO is dead” è diventato un vero e proprio tormentone negli ultimi anni.
Come avrai letto nel nono capitolo, invece i SEO resilienti sono vivi e vegeti.
Qualcuno, addirittura, è riuscito a trasformare in opportunità quelle novità che la maggior parte delle persone aveva accolto come cataclismi. Il passo successivo sarebbe “abbracciare” il cambiamento, oltre che sopportarlo: ho letto su un annuncio di lavoro di una social media agency americana la frase “Keep calm and embrace the change”; un concetto che va ben oltre la capacità di adattamento. Addirittura, negli USA, in manifestazioni come il Failcon startupper e imprenditori celebrano i propri fallimenti. Senza arrivare a tali esasperazioni, è possibile prenderci gusto e diventare promotori del cambiamento, in tempo reale. Fra l’altro, proprio come Open Knowledge proponeva già al Social Business Forum 2015, intitolato appunto “Embrace Digital Disruption”.
M.M.: E queste attitudini sono innate o si possono “allenare”?
G.F.: Ci sono sicuramente delle persone più predisposte di altre (e non sempre sono i più giovani, come si potrebbe essere portati a pensare) ma è possibile immaginare dei percorsi di formazione che aiutino a sviluppare le attitudini digitali. Un esperimento particolarmente interessante è stato portato avanti da UniCredit: per il progetto “NBA: Natural Born Advocates”, presentato al Social Business Forum 2016, i dipendenti sono stati preparati ad affrontare in modo consapevole le dinamiche della rete e le diverse tipologie di utenti, oltre che a padroneggiare i principali social media come dei veri community manager, lavorando su piattaforme social e in ambienti narrativi estremamente realistici.
L’iniziativa ha avuto riscontri positivi soprattutto per il fatto di essere stata lanciata in risposta a un’esigenza avvertita dagli stakeholder interni e per essere stata con loro co-progettata: molti dei dipendenti UniCredit infatti condividevano già in maniera spontanea, sui propri canali, contenuti riguardanti l’azienda; le loro esperienze personali sono state ascoltate e utilizzate come base per la stesura delle social policy interne.
Si tratta di percorsi (cfr. #DigitalHR e Social Media #EmployeeAdvocacy: uno stato dell’arte) che tutte le aziende farebbero bene a intraprendere per preparare le proprie risorse a orientarsi sul web, soprattutto in considerazione della stretta relazione che intercorre tra il personal branding dei singoli e la corporate reputation.
UN ESTRATTO DEL LIBRO
COMMUNITY MANAGER: IL DEMIURGO DELLE COMMUNITY ONLINE
Community manager: chi è costui?
Se ne parla tanto, ormai, spesso a sproposito. Correva l’anno 2008 quando un amico, uno di quelli con un piede negli States e l’altro in Italia, venne da me, appena “sbarcata” su Facebook, peraltro solo perché costretta da un’amica americana “a guardare le foto dei suoi nipotini”, e mi fece: “Ma lo sai come ti chiami tu?… Tu sei una social media manager!”.
Ah, ecco. Di acqua sotto i ponti, da allora, ne è passata un’immensità. Il job title non si trova più solo su Mashable o su altri siti anglosassoni, ma anche da noi. Anzi, fin troppo, ora dilaga. Proprio ora che questo lavoro, tra un anno, potrebbe non esistere più. Almeno, non nei termini in cui lo conosciamo oggi.
Quali sono questi termini, però?”
“Iniziamo a sgombrare il campo. Digital marketing, social media marketing, community manager, social media manager, social media analyst, insieme ad altre mansioni che terminano con “strategist” o “specialist” sono solo alcuni dei termini più ricorrenti in Rete, con cui speriamo di presentarci al mondo e autoconferirci dignità e ruolo – magari dicendo per bene una volta tanto pure a mamma che razza di lavoro facciamo e che no, “non stiamo tutto il giorno a smanettare su Facebook”.
Ugualmente le aziende “al passo coi tempi” sfornano ogni giorno annunci di presunti nuovi posti di lavoro.
Perché? Presto detto: c’è una gran confusione.
In parte per colpa nostra, di noi presunti esperti che con questa roba abbiamo a che fare ogni giorno. C’è chi, per ignoranza digitale, non ha davvero idea di che cosa sia e quali sforzi comporti essere community manager aka social media manager. E chi poi invece, spacciandosi per l’ennesimo guru della Rete, si adorna di qualifiche e sforna corsi di formazione dai nomi incomprensibili #comesenoncifosseundomani – vendendo fuffa. Così il “socialmediacoso” impera.
Poco da stupirsi, dunque, se le aziende seguono a ruota. E quando decidono di sbarcare sui social, affidano al primo che passa il compito di una “web-social-digital-communication-strategy”.
Sia chiaro: non esiste, oggi, un sapere enciclopedico sulla materia. Non c’è una Treccani dei social, un Bignami delle community, un manuale pronto all’uso.
Il fattore cronologico ha il suo peso: da noi questo lavoro è nato da poco. È però anche un fatto di sostanza. Nella “società liquida” in cui viviamo, i social sono il mondo “liquido” per eccellenza: in fieri, in costante divenire e, perciò, in incessante [ricerca di] definizione. Le community sono “comunità liquide”.
E allora? Diciamolo subito: il community manager – aka social media manager, per ora mettiamola così – è colui che “comunica, coinvolge, cura”. Chi? Che cosa? La community online, la fluida e indefinita comunità di utenti online in qualche modo riconducibili al brand che si vuol promuovere. Colui che, ricevuto oppure strategicamente ideato il messaggio o la mission da comunicare al mondo, si fa tutt’uno con esso e vive in interconnessione perenne coi propri contatti: attivi, potenziali, dormienti, lontani. Le “3 C” appena esposte si fondano certo su competenze precise: alcune centrali, altre esternalizzabili, come un direttore d’orchestra che coordina svariati strumenti, animandoli e rendendoli in grado di produrre musica, oppure come il direttore dei lavori in un cantiere aperto che diverrà presto “smart city” per molti. Il “superpotere” di tale professionista è chiaro: essere in costante contatto con la propria rete, di cui sente e rileva in ogni istante le pulsazioni del cuore, il livello della pressione, i battiti del polso. Così da coinvolgerla, farla vivere e proliferare.
Il passo indietro
“Ok, e quindi? Nel concreto chi è questo community manager?”
La domanda resta.
Facciamo un passo indietro: “ein Schritt zurück” avrebbe detto Heidegger. Who, What, Where, When, Why – e anche How. Il “perché, chi, che cosa, come”, più in generale, del social media marketing: del community manager. La sua Youtility: l’utilità per voi, brand o persona che siate.
Cui prodest? A che serve in primis? A che vi serve? A che vi servo io, e come servo a me in ciò?
Chiediamoci allora intanto: perché scegliere il community manager? Sia per chi voglia diventarlo o perfezionarsi in questa nuova professione, sia per il brand che scenda nel campo social. Chi è, che cosa fa e come, questo losco figuro? Dove e quando lo fa? Con quali strumenti e attitudini?
“Quante domande!” Lo so. Respirate. Step by step: un passo alla volta. “Tanto io vi tengo per mano. E vi racconto una storia…
Le quattro chiavi: resisto, sono, ci sono, per voi (e per me)
Ogni storia inizia aprendo una porta. Voi avete le chiavi?
Eccole qua:
1.Resisto. Cioè: sono resiliente. La resilienza in quanto exit strategy dalla crisi. Come risolvere i miei problemi di business, come riuscire a vendere, uscendo dalle empasse di questo periodo? Improntando il proprio atteggiamento alla resilienza, alla capacità di sopravvivere alla crisi, di vivere oltre. Trovando il modo di vivere meglio, di rinascere a vita nuova, anche nel business.
2.Sono. Cioè: sono questo che vedete, vero, trasparente, nudo innanzi a voi. Autenticità e trasparenza del brand sono valori prioritari da recuperare: non alla ricerca di un ROI, di un “ritorno sugli investimenti” diretto, di una monetizzazione a breve, bensì in una strategia di lungo periodo che vada oltre sé stessi e il proprio mandato, guardando al futuro dell’identità del marchio. Che miri al riacquisto di un valore. Il valore.
3.Ci sono. Cioè: sono qui, a vostra disposizione. Potete fidarvi di me. Affidabilità dell’azienda, dunque, o di voi che dovete vendere, o vi volete “vendere”: non come immagine ma sostanza. Fiducia: che il cliente può e deve riporre anzitutto in voi, nel brand che rappresentate.
4.… Per voi (e per me). Cioè: amicizia. Un rapporto nuovo che deve nascere in forma di “un brand amico del cliente”. Amico vero, però: di quelli che corrono in vostro aiuto anche alle tre del mattino se avete bisogno, che danno la vita per voi e si mettono in gioco finché non state bene, non siete soddisfatti, non avete risolto ogni problema, e viceversa. Dove guadagnano tutti: clienti, amici, contatti – possono tornare a fidarsi e comprare. Ma anche voi, persona o cliente, che tornerete a vendervi e vendere.”
Tratto da:
Giulio Xhaet – Ginevra Fidora, “LE NUOVE PROFESSIONI DIGITALI”.