Si è svolta ieri con grande successo l’edizione 2016 del TEDx Bologna il cui il tema conduttore è stato LA TRANSIZIONE, il cambiamento che può essere costruttivo solo se cambiamo la nostra linea di pensiero.
Un tema evidentemente di grandissima rilevanza per tutti coloro che si occupano oggi della “madre di tutte le transizioni” che è rapprentata dalla Digital Transformation in atto. Ne abbiamo parlato con due dei protagonisti dell’evento bolognese: Emanuela Zaccone, che ha ripercorso i mutamenti tecnologici e sociali intervenuti in questi anni per dimostrare come tutti siamo parte del cambiamento. E come il video sia il fattore abilitante di questa trasformazione; Davide Folletto Casali, secondo il quale la transizione per favorire il cambiamento è andare oltre l’ego. Una delle illusioni perpetrate dalla società odierna, ha affermato, è quella del genio creativo individuale. Se sfatiamo questo mito, troviamo invece che le idee migliori nascono da collaborazioni. Intelligenza collaborativa, insomma.
M.M. Big data, internet of things, mobile, connettività….Il motore più importante del cambiamento è oggi è dato dalla Digital Transformation in atto che sta modifcando interi settori di mercato, business model, rapporti fra aziende e stakeholder. Cosa significa cambiare la nostra linea di pensiero in questo contesto?
E.Z.: Adattarsi a collaborare, contribuendo al cambiamento con l’adozione di nuove pratiche in contesti tradizionali, nel nostro quotidiano. Che si tratta di cambiare il modo in cui fino ad oggi si è lavorato – ad esempio con il remote working – o di introdurre metodologie agili nella gestione dei flussi di lavoro, l’innovazione deve passare attraverso il miglioramento e l’evoluzione dei processi attuali.
D.F.C.: L’entrata del digitale in industrie non nativamente digitali sta portando ad un interessante contrasto di culture: da un lato una forma di arroganza del digitale che in virtù di recenti successi si trova ad avere un enorme peso, dall’altro industrie che necessitano una integrazione fisico-digitale che è largamente estranea al mondo puramente digitale.
Questo sta portando il digitale a diventare un poco più umile, perché per ottenere una integrazione di successo è necessario una integrazione dei due mondi e non una dominanza. La selezione dei fattori della trasformazione digitale e la loro combinazione con industrie differenti è la chiave per il successo. E’ egualmente importante che questa necessità di combinazione non diventi una scusa per rifiutare il cambiamento, o farlo in maniera molto ridotta.
Per esempio anche il concetto oggi in hype di Internet of Things ha subito enormi cambiamenti nel tempo, anche se la maggior parte delle persone continua a percepirlo come una cosa sola. Wikipedia è uno ottimo registro di queste trasformazioni: comparando la pagina Internet of Things nel 2008 ed oggi notiamo che si è passati da una definizione di “oggetti connessi e intelligenti che si auto-configurano e comunicano” a “reti di oggetti e sensori in grado di scambiarsi data”, quindi in pochi anni perdendo la natura autonoma degli oggetti stessi.
E’ fondamentale quindi per i business di affrontare la digitalizzazione il prima possibile, darsi spazio di sperimentare e di capire dove questa linea intermedia sia, in modo da avere valore da entrambe le conoscenze. In altre parole, è necessario un pensiero ibrido.
M.M.: Quali sono le nuove competenze digitali necessarie per vincere la sfida della trasformazione in atto, specie per chi opera in aziende ancora organizzate in modo tradizionale?
D.F.C.: Non credo siano necessarie competenze nuove di per sé, ma è fondamentale comprendere che stiamo uscendo da un’era dove l’iper-specializzazione verticale era necessaria e arrivando in un periodo dove c’è la combinazione di specializzazione verticale e orizzontale (ibridi o T-shaped secondo la definizione di IDEO).
Il motivo per cui il digitale è rivoluzionario è che rende obsoleti molti processi. Quando sparisce il costo di fare un esperimento, quando è possibile comunicare istantaneamente dall’altra parte del continente, quando è possibile in 30 minuti prendere una decisione con tutti i dati necessari, i vincoli cambiano — regole normali e utili nel mondo pre-digitale diventano zavorre una volta che il digitale inizia ad essere integrato.
La competenza quindi da acquisire, in particolare per i manager, è quella di avere un panorama ed una comprensione più ampia del business non ristretta alle proprie competenze, in modo da sapere a chi rivolgersi e con chi collaborare in modo diretto, superando le gerarchie tradizionali.
A livello individuale, questa fluidità porta molta paura: paura di non avere abbastanza dati, di mettersi in gioco, di non stare decidendo abbastanza rapidamente, di stare mettendo a rischio qualcosa. La gestione di questa frustrazione è importante a livello individuale per evitare che si rifletta sull’azienda nel suo complesso.
E.Z:: Il segreto è nella capacità di fare evolvere le proprie competenze facendo leva sulla tecnologia.
Non significa che dobbiamo tutti imparare a parlare e a scrivere codice, ma senza dubbio significa che dobbiamo smettere di guardare al digitale e all’impostazione tradizionale del lavoro come due opposti. Adottare nuovi comportamenti potenziati dalla tecnologia significa ottimizzare la qualità della vita e del lavoro.
La prima competenza è la curiosità.
M.M: Come cambiano i modelli di leadership, i rapporti fra manager e dipendenti?
E.Z.: Cambiano solo se c’è fiducia, se si ragiona per obiettivi invece che per ore trascorse in un ufficio. Se ci si rende conto che la collaborazione dentro l’azienda arricchisce tutti.
D.F.C.: L’esempio più evidente del cambiamento in atto è che oggi possono esistere aziende non solo remote, ovvero dove c’è un ufficio centrale e persone che lavorano a distanza, ma addirittura distribuite, ovvero completamente senza sede. Io lavoro in Automattic che è l’azienda più grossa al mondo con questo modello.
Le trasformazioni quindi sono due a mio avviso.
Uno è il modello di comunicazione che in moltissime industrie può diventare remoto o distribuito. Certo, certi business hanno vincoli territoriali di varia natura, ma spesso c’è una parte dei dipendenti che può essere efficacemente reso flessibile. Sicuramente molti manager tradizionali hanno il terrore di questo perché sono ancora ancorati ad un modello Taylorista e industriale del controllo totale del dipendente, ma di fatto è una preoccupazione inesistente perché un dipendente inefficace è quasi peggio quando è costretto ad essere presente per il suo impatto negativo con i colleghi, ed in entrambi i casi comunque non farebbe il lavoro richiesto. Il mito della presenza fisica come fattore di controllo del lavoro svolto va dissolto e sostituito con la responsabilizzazione e l’indipendenza, in vari modi e sfumature.
La seconda trasformazione è quella dei manager. Anche qui stiamo ancora nella maggior parte dei casi seguendo idee vecchie. Il modello Taylorista è stato criticato da più parti, ma per moltissimi motivi è ancora quello non solo prevalente ma insegnato come quello corretto. La posizione del manager deve spostarsi da persona che ha potere decisionale a una persona sullo stesso livello degli altri, semplicemente con competenze differenti. Non è più quindi neppure una progressione di carriera, ma una competenza di gestione del personale completamente differente, una carriera differente.
M.M.: Uno dei temi critici oggi è lo sviluppo della collaboration interna alle aziende e il co-design fra le aziende e i propri clienti. Cosa ne pensi?
E.Z:: Le aziende che vivono di omologhi, che non ascoltano i propri clienti e che non sanno valorizzare il talento interno, sono destinate a scomparire. E stanno già perdendo.
D.F.C.: Ho lavorato per molti anni alla trasformazione di sistemi socio-tecnologici, ovvero sistemi dove persone e tecnologie sono integrate e vanno progettati come una singola entità e non nel modo classico di due processi distinti.
Le barriere interne alle aziende solo in parte dovute a limiti tecnologici: software chiusi e isolati, sistemi di controllo di accesso, ma anche architetture degli edifici che isolano le persone. L’altra parte sono fattori umani: come i gruppi si organizzano e auto-organizzano, quanto le persone si sentono libere di comunicare attraverso i confini artificiali nati per pura gestione aziendale e così via.
In modo analogo, il “cliente” non andrebbe trattato come esterno a livello di gruppo di lavoro, ma va creata una unità separata, trasversale ai confini aziendali, dove si lavora ad un obbiettivo comune. Senza questa assunzione è difficile instaurare una vera collaborazione, ed è chiaro come il tutto parta sin dal primo momento di contatto con il cliente.
Il concetto di co-design va a sua volta elaborato in modo chiaro, perché troppo spesso diventa groupthink e design by committee. Il co-design invece ha sempre una guida, un facilitatore: l’intelligenza delle masse non emerge se le persone non lavorano prima in modo indipendente, e se poi non c’è un processo di sintesi allineato con la strategia aziendale.
M.M.: Come abbiamo detto il digitale non attiene solo alla sfera tecnologica, ma prima ancora ai modelli cognitivi, culturali, in ultima analisi quindi anche etici. Quali sono i nuovi valori che dovremmo mettere in pratica per cogliere tutti i vantaggi della trasformazione digitale?
E.Z:: L’autenticità. In un modo sempre più mediato da schermi è fondamentale “rendere giustizia” ai vantaggi introdotti dal digitale dimostrando che certi strumenti possono essere un veicolo per valorizzare la propria persona e le proprie competenze e lo possono essere in modo trasparente, rendendoci degni di quelle fiducia che in molti casi, ancora, è accordata solo ai rapporti “in persona”.
D.F.C.: Ci sono quattro fattori: complessità, accelerazione, interazione e mente.
Complessità perché non è solo necessario ma anche fondamentale che il mondo di oggi è interconnesso. Troppe decisioni vengono prese localmente senza valutazione dell’impatto globale. E questo non significa solo in termini di macroeconomia e politica, ma anche internamente ad aziende e gruppi. Il rapporto costo-beneficio va valutato sempre sull’insieme cercando di comprendere i processi nel loro complesso.
Viviamo anche in un mondo che sta accelerando fortemente, e questo richiede lo sviluppo di nuove abilità. Capire come fluire con la corrente del cambiamento è importante per non venire travolti, e il metodo tradizionale di ancorarsi in un posto è inefficace nel medio e lungo termine. Nel digitale questa fluidità è nativa quindi abbracciata già in una certa misura, ma questo è uno dei valori da integrare anche in aziende tradizionali, dove fa invece molta più paura.
L’interazione fra uomo e uomo, uomo e macchina, diventano non solo sempre più sfumati, ma anche sempre più essenziali ed integrati. Qui non parliamo (solo) di integrazioni nel senso fantascientifico del termine con connessioni neurali e impianti, ma anche semplicemente nel rapporto fra la persona e la sua connessione ad internet, che è un enorme moltiplicatore di possibilità.
Infine, tutto questo poggia su di noi come persone. Dobbiamo capire la nostra mente, non solo da un punto di vista scientifico, ma anche da un punto di vista individuale. Una persona che si fa prendere troppo dalle paure, crea un impatto enorme sugli altri e sul suo stesso gruppo o business. Dobbiamo quindi essere tutti più attenti alle nostre dinamiche interiori per fare business migliori, ma anche per migliorare noi stessi e vivere meglio. La persona e il business non sono mai separati come han voluto farci credere.
Questi sono i quattro punti che appaiono nel Manifesto Ibridi, di cui sono co-autore.
L’etica è un fattore trasversale a questi quattro. Purtroppo la riflessione etica nella tecnologia sembra sempre arrivare a posteriori, ma la tensione che questo genera cresce finché diviene difficile da ignorare, perché i cambiamenti tecnologici sono trasformativi per la società, ponendo questioni che prima non esistevano e se non ricevono risposta continuano ad accumularsi.