Essere adulti fra neoluddismo e tecnoentusiasmo
Une delle discussioni che ormai da anni offre quotidianamente spunti di discussione su tutti i mass media è quella che oppone i Neoluddisti, ovvero coloro che sono ostinatamente avversi alle nuove tecnologie digitali e collaborative, in quanto considerate fonte di ogni Male, ai Tecnoentusiasti, che vedono nei processi di Digital Transformation in atto una cornucopia traboccante innumerevoli possibilità di sviluppo, innovazione, benessere.
In questo quadro si colloca anche la riflessione su cosa significa essere adulti oggi. Ad esempio Steven Mintz nel suo nuovo libro, The Prime of Life, sostiene che l’idea di maturità legata al compimento del ciclo andare a vivere da soli-trovare un lavoro-sposarsi-avere figli appartiene solo al periodo che va dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Sessanta, eppure continuiamo a dipendere da quella etichetta. Da qui viene lo stress che caratterizza l’essere adulti nella società contemporanea, caratterizzata dalla scarsa definizione dei ruoli. Quando non hai una mappa definita dei compiti è molto difficile procedere. “Pensiamo alle coppie, sostiene Mintz: come si decide oggi chi dei due lava i piatti, chi si prende cura dei figli, chi deve provvedere al sostentamento della famiglia? Le relazioni sono più difficili anche per questo, e certamente l’instabilità dei rapporti di coppia è un altro fattore di stress per l’adulto”.
C’è una costante nella definizione di adulto che si ripete nei secoli? A questa domanda così risponde lo studioso: “Ci sono alcune caratteristiche che valgono per i diversi periodi storici, nonostante si cominci a parlare di età adulta solo nel Settecento: capacità di pensiero critico, una certa sofisticazione negli atteggiamenti, maggiore consapevolezza ed esperienza. Ma più di tutto quello che lega le diverse idee di maturità nei secoli è il concetto di responsabilità. Quando sei giovane sei responsabile solo di te stesso, essere adulto significa assumersi la responsabilità di altre persone: il partner, i figli, i propri genitori”.
Essere adulti, o meglio l’essere umani, dipende dall’assunzione di responsabilità delle conseguenze delle mie azioni: un’ affermazione che è alla base dello Humanistic Management, come abbiamo argomentato per esempio in Nulla due volte commentando la poesia di Wislawa Szymoborska Lode della cattiva considerazione di sè: “La divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio di Treblinka e che oggi vive in ogni struttura aziendale ispirata ai criteri dello Scientific Management (Bauman docet, ndr), detto anche taylorismo o Management 1.0, fa sì che all’interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l’operatore, sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi, di intendere realmente l’esito ultimo a cui porterà la sua azione. Così l’operatore non solo diventa irresponsabile, ma gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perché la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito circoscritto, indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli altri compiti circoscritti previsti dall’apparato, la sua azione approdi a una produzione di armi o a una fornitura alimentare». Non c’è nulla di più animale / della coscienza pulita / sul terzo pianeta del Sole…”.
Se questo è vero, nell’era della Digital Transformation la domanda successiva diventa: la tecnologia unisce la famiglia o tende a disgregarla? Possiamo ritrovare il senso dell’essere genitori responsabili attraverso un rapporto con i nostri figli anche mediato dai videogiochi, dai social network, da smartphone e tablet? Ovvero da quelle forme di costante divertimento e “ingaggio” digitale cui sono esposti costantemente, soprattutto quando sono piccoli o piccolissimi?
La proposta di Chapman e Pellicane
Se la tecnologia ha il potenziale per aggiungere valore alla vita della famiglia, è anche in grado di erodere il senso di unione e può ostacolare lo sviluppo emotivo e sociale del bambino. Generazione touch di Gary Chapman e Arlene Pellicane intende fornire gli strumenti necessari per far fronte a questa nuova situazione in cui i più piccoli si trovano a vivere. Attraverso testimonianze dirette e tanti consigli di buon senso, il volume vuole trasmettere un metodo per preservare la famiglia dall’eccessiva dipendenza dagli schermi digitali, il cosidetto screen time. Non solo: l’adulto, tramite questa lettura, apprende come insegnare i cinque talenti che ogni bambino durante la sua crescita dovrebbe arrivare a padroneggiare: affetto, riconoscenza, gestione della collera, scuse e attenzione.
Come? Ad esempio chiudendo ogni capitolo con alcune domande su cui il genitore viene invitato a riflettere quali (ad esempio nel caso del capitolo dedicato all’affetto):
In che modo tuo figlio esprime l’affetto che prova per te? In che modo lo manifesti tu nei suoi confronti?
Il tuo cellulare (o il computer) si disputa il tuo affetto con tuo figlio?
Dopo aver ricevuto un device elettronico (un tablet, un cellulare o un videogame), tuo figlio ha manifestato meno affetto nei tuoi confronti o verso gli altri membri della famiglia?
Racconta quando sei riuscito a mettere da parte la tecnologia per stare con tuo figlio “con tutto te stesso” (o viceversa, quando l’ha fatto lui per stare con te).
Cosa ne pensi dello screen time nelle occasioni in cui tuo figlio incontra gli amici per giocare insieme?
Quanto è esposto tuo figlio ai social media? A tuo giudizio, i social media possono essere utili o nocivi (considerato che spingono tuo figlio a cercare l’approvazione degli altri)?
Tuo figlio guarda o gioca con videogame violenti? Se sì, questo ha cambiato la sua empatia nei confronti degli altri?
Tuo figlio guarda gli altri negli occhi? Lo fa volentieri anche con te? E gli altri adulti o amici?
In che modo il contatto visivo può manifestare l’affetto nei confronti di una persona?
Gli autori inoltre forniscono al lettore gli strumenti per preparare i propri figli a essere socialmente ricchi in un mondo digitale; sostituire l’eccessiva esposizione agli schermi con preziosi momenti dedicati alla famiglia; scoprire i segreti dello screen time educativo e stimolante; imparare i metodi corretti per impegnare il tempo dei bambini mentre i genitori sono occupati.
Il limite del libro
In conclusione quindi si tratta di un testo interessante e di facile lettura che però ha almeno un paio di limiti. Il primo è un eccesso di retorica familistica che probabilmente funziona bene per un pubblico mass-market USA, molto meno per il più scafato lettore italico.
Ma soprattutto il libro ha un taglio eccessivamente neoluddista, che tende ad enfatizzare la negatività di una eccessiva esposizione al digitale, non sufficientemente equilibrata da una adeguata sottolineatura di quanto l’acquisizione di corrette competenze digitali fin da bambini sia decisivo per il futuro personale e professionale dei nostri figli (già oggi le aziende sono in mano alla cosiddetta “Generazione C“) o di quanto anche attraverso ad esempio i social network si possano mantenere vivi i rapporti fra figli, genitori e addirittura nonni (mentre chiunque abbia una madre o una nonna che ha scoperto Whatsapp sa quanto un semplicissimo “gruppo Family” possa essere di aiuto nel mantenere vivi i rapporti fra generazioni).
Il consiglio con cui si chiude il libro sintetizza un po’ il senso di tutta l’operazione: “Di’ addio alla babysitter digitale”. “Certo è facile – si legge – consentire ai bambini di guardare ore e ore di televisione o di dedicarsi ai videogiochi invece di pensare ad attività alternative. Ma la soluzione più facile non è sempre la migliore. Quali risultati può produrre una babysitter digitale, si chiedono gli autori, rispetto a un genitore premuroso e sollecito? Ciò che scegli di fare durante i primi diciotto anni di vita di un figlio è fondamentale per il suo sviluppo futuro. I tuoi investimenti di genitore avranno effetti positivi su di lui, soprattutto quando avrà tra i diciotto e i trentacinque anni. Possiamo comprendere i genitori che tirano avanti come possono e intraprendono la strada più semplice per disperazione. Ma sono fin troppe le famiglie che finiscono per imboccare quella della dipendenza digitale e i risultati sulla società non possono che essere negativi. Vi sono molti adolescenti depressi, che non sono felici, sono tossicodipendenti o si ribellano alle figure autoritarie della loro vita. Quale genitore, devi prefiggerti l’obiettivo di combattere gli effetti negativi dello screen time e della babysitter digitale”.
Un estratto
“I videogiochi alimentano la rabbia?
Tony è il classico bambino di quinta elementare. Preferisce lo sport allo studio, ma a scuola ha un buon rendimento. Dopo gli allenamenti di calcio e i compiti, può giocare con i videogame. Un giorno ne ha scoperto uno di moda tra i bambini di prima media e di lì a poco lo usa anche lui. Anche se il gioco è indicato per ragazzi di diciassette anni, lo conoscono tutti i suoi compagni, così i genitori pensano che sia innocuo.
Qualche mese dopo, però, i genitori si accorgono che Tony è cambiato. Vengono contattati dalla maestra perché il bambino si è azzuffato con un compagno e le ha mancato di rispetto. A casa dimostra poca pazienza nei confronti della sorella minore e spesso ha scatti d’ira improvvisi. E se i genitori chiedono spiegazioni, Tony si arrabbia ancora di più.
Quando i bambini passano troppo tempo davanti ai videogame (specialmente se violenti), diventano facilmente scontrosi, irritabili, impazienti e polemici.
Come per gli adulti, i bambini hanno bisogno di riposare e ricaricarsi. Ciò avviene con maggior facilità giocando all’aperto, leggendo un buon libro, parlando con un genitore o abbracciandolo. Non ci si rilassa con un device, anche se è così che molti passano il tempo libero. Senza riposo e rilassamento di occhi e mente, i bambini diventano irrequieti e più inclini alla rabbia. Inoltre, i mondi digitali enfatizzano la velocità, quindi un bam- bino che cresce a pane e computer avrà poca pazienza per i ritmi della vita reale, e quando sarà costretto ad aspettare per ottenere qualcosa, l’impazienza può trasformarsi rapidamente in frustrazione e rabbia.
Molti pensano che la violenza di videogame, film e televisione non abbia effetto sui bambini. In realtà, tuo figlio viene influenzato da tutto ciò con cui interagisce. Questa violenza è particolarmente dannosa per- ché non gli insegna a relazionarsi in modo adeguato con il prossimo. I giochi “sparatutto” e le serie Tv violente insegnano a uccidere e distrug- gere. Qualcuno potrebbe obiettare: “Be’, è solo un gioco”, oppure: “Lo danno in televisione, non è la realtà”. Tuttavia, secondo numerose ricer- che, i bambini che trascorrono molto tempo con videogame o film violenti sono più predisposti all’aggressività. Più di mille studi e articoli scientifici dimostrano che un’esposizione significativa alla violenza dei media aumenta il rischio di comportamenti aggressivi, desensibilizza alla violenza e inculca l’idea che il mondo sia un luogo più squallido e pauroso di quanto non sia realmente.
I videogame sono pericolosi perché il bambino non assiste passivamente alla violenza, ma vi partecipa. E più si sente coinvolto, più tenderà ad assimilare l’esperienza. Questi giochi, inoltre, creano un sistema di rinforzo per cui con un comportamento distruttivo si ottengono ricompense continue.
Se tuo figlio gioca saltuariamente con videogame violenti, l’effetto sarà trascurabile. Ma se ne usa parecchi, più giorni alla settimana e magari per anni, non ne uscirà indenne. Esiste una correlazione tra rabbia e violenza sui device. Ecco perché occorre dare istruzioni chiare ai figli su ciò che possono vedere. Se ti rendi conto che il bambino sta giocando con un videogame che non reputi sano, fallo smettere e cerca di eliminare tutti i giochi violenti, preferendo quelli creativi, privi di contenuti aggressivi, e spingendolo verso amicizie cui piaccia fare attività che non siano i videogame.
La rabbia online
Può anche accadere che tuo figlio sia irascibile non solo a causa del suo screen time, ma del tuo. Molti bambini sono frustrati, tristi e nervosi perché per attirare l’attenzione dei genitori devono competere con un device. Spesso gli spazi un tempo dedicati al rapporto tra figli-genitori si trasformano, per molti adulti, in momenti per l’uso del cellulare. Alcune madri, per esempio, usano il cellulare in macchina, al parco o alle feste di compleanno dei figli. Sono comportamenti socialmente accettabili, ma cosa comunicano a un bambino? Se si sente dire costantemente: “Aspetta un momento, sono al telefono”, penserà che stare con lui non è importante quanto il telefono.
Oggi, l’era digitale pone nuove sfide sul modo in cui gestiamo le relazioni su Internet e trasmettiamo queste abitudini ai figli. Altro problema del rapporto tra bambini e tecnologia è che questa garantisce un anoni- mato che mette l’utente al sicuro dalle conseguenze. Nella realtà un bam- bino non direbbe parole d’odio o rabbia ai propri compagni, ma può sem- pre accedere al computer con uno pseudonimo e mettere in rete post o mail pieni di livore. In questo modo i bambini possono sfogare rabbia e frustrazione sugli altri, senza contare che oggi ferire una persona è più facile che mai: basta cliccare sul tasto Invia.
Il cyberbullismo si serve deliberatamente dei media digitali per comu- nicare informazioni false e ostili sul conto di un’altra persona, prenderla in giro, farla arrabbiare, sminuirla su una chat o postare foto imbarazzanti su un social network. Il cyberbullismo è un passatempo letale per bambini e ragazzi.
Circa il 30% degli adolescenti americani ha avuto esperienze di bulli- smo, quale vittima, aggressore o entrambe le cose2. I maschi tendono più all’aggressione fisica, le ragazze allo scontro verbale, quindi i genitori dovranno prestare particolare attenzione anche al modo in cui le figlie comunicano sui device. Se scopri che tuo figlio bullizza un compagno online, basterà sequestrargli il telefono o l’iPad per un paio di giorni; ma se l’episodio si ripete, riduci l’uso consentito dei device per un periodo più lungo. Quando bambini e ragazzi capiscono che non possono tenere quel comportamento online, imparano a rispettare le regole.
Un buon suggerimento è insegnare ai figli le buone maniere online già prima dell’adolescenza. Quando saranno grandi a sufficienza per inviare un messaggio o una mail, sarà il momento di fargli capire ciò che è appropriato dire o fare sul web. Per esempio: ci vediamo domani all’ingresso; sta- sera ho voglia di pizza per cena. Oppure: grazie per avermi ascoltato. Bella la tua camicia.
Ciò che invece non si può fare è sfruttare la tecnologia per esprimere rabbia. Insegna loro a non usare termini che non direbbero se la persona cui si rivolgono fosse davanti a loro. Se tuo figlio impara a usare i social media per insultare chi lo ha fatto arrabbiare, potrebbe essere difficile fargli perdere questa abitudine deleteria in età adulta. Parolacce e insulti online possono essere letti e riletti all’infinito, lasciando una traccia emotiva sui bambini. Insegna loro a gestire la rabbia nella realtà e non sullo schermo”.