“La gente parla, parla di tutto, parla anche delle marche e dei prodotti. Se coloro che fanno i prodotti vogliono prendere parte alla conversazione sono i benvenuti, altrimenti sappiano che la conversazione avverrà ugualmente (Cluetrain Manifesto). In altre parole, come già aveva fatto Giampaolo Fabris in Societing, si parte dal prendere atto che «i mercati oggi sono conversazioni». Conseguentemente per le imprese la prima condizione per poter non solo sopravvivere, ma trarre vantaggio da questa realtà è l’aprirsi all’ascolto e al dialogo, non già usando la rete come mero strumento di comunicazione (nella illusoria convinzione di poter adattare i vecchi messaggi al nuovo sistema di media), bensì ribaltando il paradigma della verticalità e del controllo”.
Così, con un omaggio ai “quattro moschettieri” del Cluetrain Manifesto (R. Levine, C. Locke, D. Searls, D. Weinberger, The Cluetrain Manifesto. The End of Business as Usual, 1999, trad. it. disponibile sul sito www.ilmestierediscrivere.com) inizia il mio libro L’intelligenza collaborativa, che in questi ultimi due anni ho avuto la soddisfazione di vedere utilizzato sempre più spesso nelle aziende orientate alla propria trasformazione in Social Organization, avendo assunto un ruolo di riferimento nel dibatto anche internazionale su questi temi (grazie alla traduzione voluta da Cambridge Scholars).
L’omaggio non è casuale: con il visionario Cluetrain Manifesto ha inizio quella riflessione sui rapporti fra Internet e società che ha dato vita ad una ricchissima letteratura spesso basata su una netta divisione dei diversi contributori tra neoluddisti e tecnoentusiasti di cui spesso ci siamo occupati in questo blog.
Non posso quindi che salutare con curiosità i “New Clues” (traduzione italiana qui) che due dei quattro autori originari (Searls e Weinberger) hanno voluto pubblicare l’8 gennaio 2015 con il medesimo tono auto-ironicamente messianico. Naturalmente ci vorrà del tempo per capire se queste nuove 121 tesi avranno una risonanza ed una importanza pari a quella enorme del primo Manifesto, ma la sensazione è che, come spesso capita ai sequel, non abbiano la stessa forza dirompente di quelle precedenti. Sono per molti aspetti degli approfondimenti delle tesi orginarie come ad esempio quelle riferite al marketing:
c. Il marketing rende più difficile parlare.
52. Avevamo ragione la prima volta: i mercati sono conversazioni.
53. Avere una conversazione non significa strattonarci per una manica per parlarci di un prodotto che non ci interessa.
54. Se vogliamo sapere la verità sui vostri prodotti, lo scopriremo l’uno dall’altro.
55. Sappiamo che queste conversazioni sono molto preziose per voi. Peccato. Sono nostre.
56. Siete i benvenuti a partecipare alle nostre conversazioni, ma a condizione di dirci per chi lavorate e se siete nelle condizioni di parlare per voi.
57. Quando ci chiamate “consumatori”, ci sentiamo delle mucche che cercano la parola “carne”.
58. Smettetela di scavare nelle nostre vite per estrarre informazioni che non vi riguardano e che le vostre “macchine” interpretano male.
59. Non preoccupatevi: saremo noi a dirvi quando cerchiamo un prodotto. Stabiliremo noi come. Non voi. Fidatevi: sarà meglio per voi.
60. Le pubblicità che sembrano umane, ma che provengono dall’intestino irritabile del vostro ufficio marketing, sporcano il tessuto del Web.
61. Una personalizzazione non riuscita indica non aver capito cosa significa essere una persona.
62. Personale è umano. Personalizzato, no.
63. Più le macchine sembrano umane, più si scivola verso l’uncannyvalley, dove tutto diventa una deformazione.
64. Inoltre: vi preghiamo di smettere di travestire le pubblicità da notizie, nella speranza che non si noti il cartellino appeso alla biancheria intima.
65. Quando inserite un “native advertising”, state intaccando non solo la vostra affidabilità, ma anche l’affidabilità di questo nuovo modo di stare insieme.
66. A proposito, perché non chiamare i “native advertsing” con uno dei loro veri nomi: “product placement”, “advertorial” o “falsa notizia del cazzo”?
67. I pubblicitari sono riusciti a non farci venire i brividi per generazioni. Possono continuare a farlo anche in Rete.
Qui, come ha osservato Richard Edelman, ritroviamo una pesantissima critica del marketing tradizionale, che tuttavia non sembra aggiungere nulla di radicalmente nuovo alle vecchie tesi.
Tuttavia nel loro complesso i New Clues sono interessanti e la lettura di almeno alcuni blocchi concettuali consente qualche riflessione stimolante.
Il primo blocco di tesi, ad esempio, è il seguente:
a. Internet siamo noi, connessi.
1. Internet non è fatto di cavi di rame, fibre di vetro, onde radio e nemmeno di condotti.
2. I dispositivi che utilizziamo per connetterci a Internet non sono Internet.
3. Internet non appartiene a Verizon, Comcast, AT&T, Deutsche Telekom o China Telecom (中国电). Facebook, Google e Amazon non sono i re della Rete, ma nemmeno servitori o algoritmi. Né i governi della Terra, né le associazioni di settore hanno il permesso dei cittadini del web per dominare la Rete come se ne fossero i sovrani.
4. Internet è una proprietà comune, dunque non appartiene a nessuno.
5. Tutto il valore di Internet deriva da noi e da ciò che abbiamo costruito.
6. La Rete è costituita da noi, creata da noi e per noi.
Questa prima serie di affermazioni fin da subito pone decisamente i loro autori nel novero di un tecnoentusiamo buonista e un po’ ingenuo, ben sintetizzato da Giuseppe Granieri: “La prima sensazione che ho avuto è che l’etica che informava i primi pionieri (libertà di espressione, ostilità verso il copyright, amore per il libero dominio, circolazione delle idee) oggi debba fare i conti con una realtà più complicata di quella che ci aspettavamo.Leggere (e condividere profondamente) alcuni clue mi ha fatto sentire un po’ “punk”, nel suo valore di «ingenuo» (o naïf se preferisci)”.
I New Clues sono tuttavia dal mio punto di vista interessanti per vari motivi, il primo dei quali è la coerenza con un concetto chiave espresso anche ne L’intelligenza collaborativa: la vera forza di Internet non sta nei sofisticati software che la rendono possibile (a partire dal linguaggio html sviluppato inizialmente da Tim Barners Lee, che pure ad un certo punto dei New Clues viene celebrato) e tanto meno nei supporti tecnologici attraverso cui ciascuno di noi fruisce della Rete, bensì nell’intelligenza collettiva scaturente dal basso di cui Internet consente appunto l’emergenza e nei valori condivisi che sono alla base del suo sviluppo (trasparenza, sharing, peering, eccetera). Come scrive ancora Granieri, “Non è più un aspetto della nostra realtà. È il sistema operativo della realtà tutta”.
Il secondo gruppo di tesi si concentra sull’ idea che b. Internet non è niente e non ha scopo.
8. Internet non è una cosa più di quanto lo sia la gravità. Entrambi ci tengono insieme.
9. Internet non è affatto una cosa. Le sue fondamenta sono rette da un insieme di accordi che i più geek tra di noi (che i loro nomi siano a lungo venerati) chiamano “protocolli”, ma che potremmo chiamare “comandamenti”, secondo le mode attuali.
10. Il primo è questo: Il tuo network dovrà trasferire ogni bene vicino alla propria destinazione, senza preferenza o ritardo basati, su origine, fonte, contenuto o intenzione.
11. Il Primo Comandamento, dunque, fa sì che Internet sia aperto a qualsiasi idea, domanda, lavoro, ricerca, vizio (cattiva abitudine) o altro.
12. Dopo la parola, non c’è mai stato uno strumento con un scopo tanto generale.
13. Questo significa che Internet non serve a qualcosa di speciale o particolare. Non serve ai social network, ai documenti, alla pubblicità, alle imprese, all’istruzione, al porno, non serve a niente. È specificamente pensato per tutto.
14. Potenziare uno degli scopi di Internet, indebolisce tutti gli altri.
15. Così come la gravità, Internet esercita la propria attrazione in modo indiscriminato. Ci unisce tutti,buoni e cattivi.
La cornice retorica di questo blocco di affermazioni ha un caratteristico andamento circolare. Comincia e finisce con la metafora molto efficace della gravità (che da questo momento diviene uno dei fili rossi che tengono uniti i diversi clue fino alla fine del documento): Internet come centro di gravità permanente, per dirla con Battiato, che resta tale nella misura in cui (e qui entra in gioca una seconda potente metafora) mantiene il suo status di “linguaggio universale”.
I due autori introducono a questo punto un altro concetto chiave: per quanto questo “linguaggio universale” possa apparire babelico, la sua forza propulsiva di attrazione e sviluppo dell’umanità resterà tale fino a quando non verrà piegato in maniera univoca ad un fine particolare. In altre parole, la grandezza di Internet sta nel suo essere, come scrive Luca De Biase, un “bene comune”, eludendo l’approccio riduzionistico tipico dello Scientific Management, di chi vuole controllare il reale (ovvero Internet, nella visione dei nostri due Cluetrainers) semplificandolo e banalizzando con l’obiettivo di piegarlo a uno specifico interesse di parte. Coerentemente, subito dopo abbiamo tre affermazioni (16-18) che puntano a rilevare che anche dal punto di vista del contenuto, oltre che delle sue finalità complessive, Internet non si identifica con nessun argomento specifico. Il termine stesso “contenuto” viene rigettato come “dirty”, “sporco”. Nel suo insieme, questa è la premessa alla critica della cultura delle app che viene sviluppata successivamente.
A questo punto Searls e Weinberger completano l’esplicitazione del loro pensiero sotto forma di una sorta di riflessione alla McLuhan: Internet non è né mezzo né messaggio, poichè non solo Internet non coincide con i suoi singoli contenuti, ma d. La Rete non è un “medium”:
19. La Rete non è un “medium” più di quanto lo sia una conversazione.
20. In Rete, siamo noi il “medium”. Siamo noi a trasportare i messaggi. Lo facciamo quando postiamo o retwittiamo, quando inviamo un link tramite email o lo postiamo su un social network.
21. A differenza di un “medium”, noi lasciamo le nostre impronte digitali, a volte anche i segni di un morso, sul messaggio che facciamo circolare. Spieghiamo agli altri perché lo condividiamo. Lo commentiamo. Aggiungiamo una battuta. Eliminiamo la parte che non ci piace. Ci appropriamo di quel messaggio.
22. Ogni volta che spostiamo un messaggio attraverso la Rete, quest’ultimo si porta con sé una piccola parte di noi.
23. Spostiamo un messaggio tramite questo “medium” solo se per noi è importante a causa di una delle infinite ragioni per cui gli uomini si interessano di qualcosa.
24. La cura reciproca— l’essere importante — è la forza motrice di Internet.
Qui la riflessione oserei dire metafisica sulla Rete tocca altri due concetti chiave dello Humanistic Management. Il primo: Internet è un Mondo Vitale nel senso di Erwing Goffman, un sistema relazionale guidato nella sua performance collettiva da convincimenti condivisi aproblematici e da empatia sistemica, dove “sistemica” equivale a “non occasionale”, “strutturale”.
“Il mondo vitale non è il “mondo privato” bensì il “mondo comune” a tutti gli esseri umani. E’ il ‘territorio o lo spazio’ dov’è possibile controllare le risposte dell’altro e rispondere alle sollecitazione di chi pone domande e chiede risposte.Ovvero lo spazio dove con facilità le esperienze umane trovano un loro significato, e non sono gli oggetti a costruire la realtà, ma il soggetto a dare il nome, o meglio a definire, la realtà. Il mondo vitale possiamo intenderlo come una provincia di significati, tra altre provincie di senso. Tutte insieme formano e danno origine alla trama relazionale e culturale di una società. Senza tale profonda produzione di senso e di vita, senza questa “empatia sistemica”, tutto si riduce a scambio di equivalenti (contratto) o a meri rapporti di dominio” (L’empatia come fondamento di un Mondo Vitale)”
Ognuno di noi è dunque parte integrante di questo sistema relazionale in quanto sensemaker, come in un libro da cui è scritto e che al tempo stesso contribuisce a scrivere, ispirandosi al principio della cura reciproca, altro concetto chiave dello Humanistic Management.
Concludo questa veloce rassegna dei New Clues, soffermandomi sulla sezione denominata D. LE “GUANTANAMO” DELLA RETE che si presenta come una denuncia del tentativo del ritorno del Modello Comando e Controllo attraverso le app:
68. A tutti piacciono le app scintillanti, anche quando sono sigillate quanto una base sulla Luna. Ma se raduniamo tutte le app del mondo, otteniamo un mucchio di app.
69. Raggruppando tutte la pagine Web, otteniamo un mondo nuovo.
70. Le pagine Web riguardano la connessione (tra le persone). Le app riguardano il controllo (delle persone).
71. Non appena ci spostiamo dal Web a un mondo di app, perdiamo ciò che stavamo costruendo insieme.
72. Nel Regno delle app, siamo utenti, non creatori.
73. Ogni nuova pagina rende il Web più ampio. Ogni nuovo link rende il Web più ricco.
74. Ogni nuova app ci offre qualcosa in più da fare sull’autobus.
75. Questo sì che è un tiro mancino!
76. Ehi, “TiroMancino” sarebbe un’app fantastica! Ha l’“In-app purchase” già nel nome.
In realtà, come già è stato osservato, Searls e Weinberger sottovalutano il fatto che ormai molte app prevedono modalità di fruizione interattive e personalizzate, come nel caso del Wikiromance Racconti invernali da spiaggia (che è in pratica un tentativo di trasformare un ebook in una app).
Riprendo a questo proposito le osservazioni contenute ne L’intelligenza collaborativa: “Il primo passo da compiere è innanzitutto definire esattamente che cosa si intende con «web 2.0»: spesso la mancanza di chiarezza su questo punto agevola gli alibi e le fughe in avanti di chi in realtà è terrorizzato dal crollo del tradizionale sistema di management «scientifico» («ma noi siamo già al 3.0!», «E noi al 4.0!» e così via, in una delirante quanto vuota escalation a chi ha la «realise manageriale.0» più lunga). Dunque distinguiamo, magari con l’accetta. Originariamente il web è stato usato come modo per visualizzare documenti ipertestuali statici, creati con l’uso del linguaggio HTML (1989, Tim Berners-Lee). In questa fase l’utente è un semplice «lettore»; l’approccio è quello di una semplice consultazione. Questo è quanto intendiamo, in buona sostanza, con «web 1.0».
«Web 2.0» è il termine coniato nel settembre 2005 dal guru americano Tim O’Reilly. Si riferisce a una piattaforma partecipativa che trasforma il web da un’estensione del sistema dei mass media (basato sul broadcasting dei contenuti) a uno spazio basato su un nuovo ruolo dell’utente: dalla semplice lettura alla possibilità di contribuire popolando il web e alimentandolo con propri contenuti. Il web 2.0 è dunque «architettura della partecipazione e intelligenza collettiva», ovvero «quel comportamento collettivo di tipo cognitivo che prende forma attraverso le tecnologie che consentono l’aggregazione dell’intelligenza distribuita in diversi individui e gruppi sociali»
Il web 2.0 rappresenta una rivoluzione copernicana perché mette l’utente al centro: i blog personali o collettivi, i social network, i wiki sono i principali ambienti che permettono agli utenti di generare contenuti. Ma nel web 2.0 l’utente è al centro anche per la sua capacità di aggregare le informazioni e i servizi a cui è più interessato. Anziché navigare nella rete alla ricerca delle informazioni, l’utente può mettere insieme informazioni e servizi acquisiti dai siti di suo interesse, ormai non solo con strumenti per «addetti ai lavori», come i feed reader, ma anche attraverso applicazioni molto semplici come Instapaper, Paper.li, Scoop.it, Storify ecc., sempre più popolari.”