Palmarini is back
A due anni dall’eccellente Lavorare o collaborare?, Nicola Palmarini torna con un’opera che segna un ulteriore salto qualitativo in avanti dal punto di vista dello stile, sempre più godibile e icastico, mantenendo intatta la ricchezza travolgente di contenuti che gli è propria: Boomerang, Perché cent’anni di tecnologia non hanno (ancora) migliorato il mondo, ancora edito da EGEA. Ma se il primo libro era una sorta di epinicio delle nuove tecnologie della comunicazione, qui, almeno nella prima parte, il tono cambia decisamente: l’Autore adesso sembra inclinare a una visione del nostro presente e soprattutto del nostro futuro al cui paragone impallidisce persino il leopardiano pessimismo cosmico.
Sulfureo, sarcastico, persino spietato, Palmarini si muove fra citazioni di Ceronetti, Heidegger e Houellebecq, con l’umorismo nero di chi non ha dormito dopo avere esagerato a cena con la pizza ai peperoni e manifestando punti di vista del tipo «la globalizzazione è iniziata con la prima guerra mondiale», rafforzati da calembour come «Cristo si è fermato a Internet», che danno la stura a domande un po’ furbette come «perché il Web non fa fermare i femminicidi, le inondazioni, le morti di civili in guerra» (stranamente dimenticando le invasioni di cavallette, la grandine e la morte dei primogeniti maschi). O ancora da testimonianze ben esemplificate da quella di Angela:
In attesa dell’iPhone 6 che davvero sembra più sottile del precedente e che quindi, se fosse confermato, dovrebbe entrare nella tasca dei jeans di Pinko al netto della lingerie push up di Spandex, pensavo che avrei potuto prendere nel frattempo un gear da polso, magari un Android, che non ho ancora capito bene come finirà la storia dello smart watch di Apple. Il Fitbit farei un po’ fatica a ricordarmi di caricarlo, tuttavia avrebbe potuto dire molto di me. Avrei preso una decina di Tile da appiccicare a tutti i device in modo da non rischiare di perderli. Sul sistema di pagamento via NFC o meno, non saprei che dirvi. Oltre al mio account Paypal io, per essere sicura, al wallet di Google comunque mi sarei registrata. Sicuramente mi sarei registrata su Google+, Facebook, Twitter, Path, Instagram, Telegram, LinkedIn, YouTube, Vimeo, Klout, Kred, Pinterest, Anobii. Userei abitualmente RetroCamera, Tiltshiftfocus, Discovr, Shazam, AmpliTube, Figure, Intoinfinity, Booking, Airbnb, Tripadvisor, 2Spaghi, MiSiedo, Depop, Super8, Videostar, Splice, Ustream, iHappy, Tumblr, Blippar, Layar, String, Geo- loqi, Waze, Tilimi, Bitstrips, Bump, Hotel Tonight, Whims, Thumb, Quora, Pheed, Spout, Pocket, Spotify, Frequency, Dreamboard, Viddy e Sphero (2.0 ovviamente). Guarderei in stream Sky con la app Sky Go. Avrei un abbonamento G4 e una rete G+++. Avrei volato su un 787 fatto quasi tutto in carbonio. Avessi modo di guadagnare uno stipendio decente forse in garage avrei una Tesla. Anche una Prius andrebbe bene. Adesso magari sarei dentro a un FabLab a stampare gioielli 3D che avrei disegnato su un iPad con Autocad. Avrei partecipato a un hackaton, scritto un post, tenuto un blog, girato un corto e corso a perdifiato insieme a dei runner seguendo una traccia GPS, scollinato da un panettone di neve con uno snow immortalando tuttocon una GoPro, inventato un flash mob, avrei comprato calze da una vending machine in mezzo al nulla. Avrei acceso le luci di casa usando Arduino, avrei spento un fuoco con una rete di sensori zigbee e creato reti mesh con le Z-Wave. Forse avrei e avrei fatto tutto questo. Forse no. Forse avrei solo una vita e una figlia da amare. Credo mi basterebbe. Se solo fossi qui»
testimonianza del tutto ipotetica, dato che Angela è morta alla Stazione Centrale di Bologna il 2 agosto 1980, conclude Palmarini.
Il boomerang
MM: Ma insomma, di che cosa sta parlando Palmarini (ehmm, domanda che spesso viene alla mente quando ci si imbatte nel suo strabordante stile di scrittura, se non è contenuto dalla sua – e mia – eccellente editor Alessia Uslenghi)? Del «boomerang» della tecnologia, ovvero…
Ho rivolto direttamente la domanda a Nicola e ne è nato un serrato confronto, un dialogo a più riprese che ci accompagnerà per qualche… «puntata».
NP: “Lascia che premetta due cose.
La prima è che questo è un libro decisamente a favore della tecnologia e decisamente contro il suo sfruttamento o la sua mistificazione da parte dell’uomo. Come dice Jason Pontin in un suo intervento al TED dell’anno scorso, «Dal 1970, nessun essere umano è ritornato sulla Luna. Nessuno ha viaggiato più veloce dell’equipaggio dell’Apollo 10 e l’allegro ottimismo sul potere della tecnologia è evaporato mentre i grandi problemi che avevamo immaginato la tecnologia potesse risolvere, come andare su Marte, creare energia pulita, curare il cancro, o alimentare il mondo, ci sembrano ora estremamente difficili da risolvere».
La colpa non è della tecnologia. La colpa è nostra che in maniera facile e anche opportunistica abbiamo prima caricato la tecnologia di responsabilità enormi e poi l’abbiamo messa in un teatro a riempire gli spazi che una volta erano più consoni al vaudeville.Oggi ci basta che tutto funzioni, che tutto sia possibilmente possibile, che tutto sia idealmente risolvibile solo perché ci prenotiamo un posto in aereo o gestiamo il nostro abbonamento dal tablet. Forse non è così, ci sono problemi decisamente complicati da affrontare e forse non (tutta) la tecnologia è pronta a risolverli come se fosse un gioco multilivello.
Invece, mi sembra che il messaggio che si voglia far passare oggi sia proprio questo. Forse dovremo ribaltare tutti i paradigmi che stiamo glorificando un po’ troppo acriticamente, forse sarà un viaggio dannatamente serio e complesso. E forse è necessario provare a immaginare il futuro di chi sviluppa tecnologia non solo concentrandoci sulle way-out a tre anni, ma consapevoli che i risultati verranno magari tra cinque o dieci anni e che per raggiungerli ci saranno da mettere d’accordo sugli obiettivi (e sui tempi) ricercatori e governi e imprese e finanziatori in un percorso che – ipotesi mia – non sarà proprio facile come scaricare una app da un marketplace.
Senza dimenticare che magari quei risultati non arriveranno mai: tra noi e le soluzioni c’è qualcosa chiamato natura che sembra molto più complicato da interpretare di quanto, forse, avessimo immaginato. E forse è anche giusto che qualcosa resti com’è senza che questo scateni chissà quale polemica.
È nella nostra natura ricercare, esplorare, trovare significati. Ma è pure nella nostra natura evolutiva imparare dall’esperienza: nel 2014 ne abbiamo già a sufficienza per permetterci qualche decisione apparentemente controcorrente.
La seconda cosa è che, proprio per questo, Boomerang non è un libro pessimistico, anzi. Cerca di far riflettere sulla datità delle cose e sull’oggettiva portata di questo tecno-ottimismo e di sottolineare quanto sia importante capire, oggi, adesso, proprio grazie all’eccezionale disponibilità della tecnologia, come forse sia arrivato il momento di fare un salto e occuparci in modo responsabile di un suo utilizzo non tanto e non solo a beneficio del prossimo tech-gadget che farà felice qualche user e darà qualche profitto immediato a qualche investor, ma anche e soprattutto teso a cercare di risolvere in maniera consapevole( e con il tempo necessario) le sfide che da tempo sono rimaste lì, più o meno appese.
E quindi si sta parlando della necessità di un presa di coscienza. Del fatto che siamo cresciuti. Del fatto che abbiamo l’esperienza e la conoscenza e lo status per capire che è oggi, siamo noi oggi e non qualcuno domani, a dover interpretare gli errori commessi in passato, alzare lo sguardo e la testa dai nostri smartphone e guardare insieme – metaforicamente – un po’ più in là, lanciando boomerang che sapremo saldamente riprendere in mano quando torneranno indietro, anziché diventare la stessa causa della nostra – usiamo una parola ampia a proposito – «infelicità»”.
Neoluddismo o neorealismo?
MM: “«Alcuni, peraltro in buona fede, confondono la critica del momento rivolta al boom delle piccole tecnologie quotidiane interpretandola come una strenua difesa dello status quo, del passato, dell’arretratezza, e si pongono come censori di qualsiasi vedetta di questo progresso. Forse non si rendono conto che stanno solo difendendo ciecamente (è il caso di dirlo, vista la verve con cui si scagliano contro quelli che definiscono «neo-luddisti») un modello di cui sono tanto vittime quanto beneficiari». Visto che da molto tempo intraprendo una battaglia contro il montante neoluddismo espresso da gran parte della casta radio-giornalistico-televisiva, ultimo bastione che si erge a difesa del modello cognitivo e culturale dello Scientific Management, sia sulla mia pagina Facebook, sia su questo blog, mi devo sentire chiamato in causa?”
NP: “Certo che ti devi sentire chiamato in causa e lo dico con la massima considerazione intellettuale possibile. Così come tutte le volte che mi hai fatto pensare o scoprire una dimensione critica con cui confrontarmi. Te ne rendo tutti i meriti.
Al di là della tua posizione – che è ben chiara e che è anche condivisibile quando si usano certi toni –, a me non sembra che esista un movimento neo-luddista. Anzi. A me sembra esattamente il contrario.
Per restare un secondo al tuo riferimento, sulla tua pagina Facebook – sorta di radar antimissile del neo-luddismo – ho contato circa 30 link. So benissimo che non puoi mappare il tutto e, anzi, a volte immagino pure la noia a dover segnalare il neo-luddista di turno. Ma di contro, quanti link trovi dall’altra parte della «barricata»? Trecento milioni (al giorno) ad annunciare e celebrare una nuova funzione, un nuovo trend, una nuova start-up, una nuova release di qualcosa per definizione migliore e più ricca della precedente? A ritwittare e rilikare le «10 regole per la social reputation più inossidabile»?
A dire che il futuro sarà così e va accettato e capito, ma se non l’accetti sei uno sfigato? Se le città non sono smart – ah! – non sono città. Se le cose non sono Internet – ah! – non sono cose. Se le parole non sono bit – ah! – non sono parole. Se le interazioni non sono social – ah! – non sono interazioni.
Mi rendo conto che questo nuovo racconto, o meglio ri-like-twit-racconto, sia una sorta di cascata all’infinito, mi rendo conto che sia un argomento importante del nostro tempo. Ma un conto è annunciarlo, celebrarlo, diffonderlo e un conto è provare a considerarlo e valutarlo.
Non possiamo correre il rischio di banalizzare la tecnologia come fosse una nuova arma di distrazione di massa e rimanere frementi in attesa della forma dell’iPhone 6 mentre soprassediamo sull’ennesimo errore di previsione della ripresa dell’economia da parte della BCE.
Questa previsione è fatta da umani, sulla base (così ci dicono) di dati e i casi sono tre: o hanno sbagliato le persone, o i dati erano sbagliati o i dati erano giusti e le persone non hanno sbagliato (cosa che ci porta nella zona dell’utilizzo strumentale dell’informazione). La manna per uno come Noam Chomsky.
Nel 2014 dobbiamo ancora accettare tutto quello che ci viene proposto, credere a tutto quello che ci viene raccontato? A che cosa serve allora il fact checking che il web tanto sbandiera e che viene usato come la clava della verità?
Le uniche macchine volanti che ho visto da quando ce le hanno promesse negli anni Cinquanta sono quelle del video di RadioGaga con Freddie Mercury e i Queen che volano sulla città (del 1927 peraltro!) di Fritz Lang. Qui stiamo accettando tutto allegramente, tanto quanto abbiamo accettato l’amianto tanto per avere un bel tetto di Onduline sulla testa e sostenere, inconsapevoli (forse) allora, quell’industria.
Quello che ci viene proposto che effetto ha e, soprattutto, avrà sulle massa? Ci interessa saperlo? A me pare proprio di no, come se le lezioni del passato fossero volate via in un soffio. Capisco bene la portata e la differenza tra l’amianto e Tinder, ma da un punto di vista puramente oggettivo il processo di fact checking è lo stesso. Qualsiasi nuova tecnologia cambia noi e l’ambiente che ci circonda, ogni nuovo media ci cambia. E, anche se ce ne siamo disinteressati in passato (con gli effetti che ognuno di noi può valutare in sé se pro o contro), dovremmo andare avanti così?
Quando ho lavorato al lancio di Tin.it eravamo, in Italia, trentamila abbonati. Era il 1997. Oggi siamo più o meno una trentina di milioni che si connettono al web almeno una volta all’anno. Che cosa ne sappiamo davvero dell’effetto su di noi di tutto questo? Sia io sia tu siamo in una età di mezzo e questo ci dà il vantaggio (o lo svantaggio) di stare lì a vedere i due lati della medaglia. Tutti e due abbiamo avuto a che fare con la difficoltà di introdurre l’innovazione nelle organizzazioni quando spesso la parola innovazione era da intendersi come un tutt’uno con la parola tecnologia.
Per contro mi è capitato di incontrare sempre più spesso dei transumanisti convinti di risolvere tutto e solo con la tecnologia. Il paradosso opposto. Sono certo che si possano fare cose in maniera diversa con e senza la tecnologia. O meglio, usando la tecnologia per quello che è, non per quello che sembra. Ecco, il «con e senza» sono importanti. Per questo sono pronto a sostenere un nuovo sistema online di messaggistica intraziendale, così come sono il primo a rifiutarlo se un foglio di carta fosse più efficace. Esistono persone e contesti e media. Non «La tecnologia. Punto. Tutto il resto è noia»”. Ma su questo so benissimo che la pensi come me”.
Ma tra Nicola e me un punto di accordo, lo sappiamo, è solo un punto di partenza per nuove riflessioni da condividere e costruire insieme. Del resto, lo dicevo in apertura, Boomerang è soprattutto questo: un terreno di confronto fecondo di spunti.
Il dialogo, dunque, continua. Alla prossima «puntata»!
1. continua