Qualche giorno fa, ho avuto l’opportunità mi partecipare in qualità di Keynote Speaker alla Convention annuale di Confartigianato, che mi aveva invitato ad illustrare il modello della social organization nel contesto specifico della piccola impresa. In sintesi, si è discusso di come il modello organizzativo basato sullo sviluppo di processi collaborativi all’interno e fra community collaborative online e offline possa essere di grande aiuto a vari livelli: per “fare rete” fra aziende altrimenti destinate a soccombere nella competizione globale; per entrare in diretto contatto con i consumatori attraverso i social media che consentono modalità nuove di co-creazione del valore; per rendere più efficiente la stessa Confartigianato, che con i suoi oltre 14.000 aderenti sparsi in tutto il territorio nazionale ha certamente le caratteristiche essenziali per evolversi in “social organization”.
L’annuncio, dato due giorni fa da Paolo Zegna, responsabile per l’internazionalizzazione di Confindustria, del varo di Storytalia, “un negozio online esplicitamente rivolto alle piccole e medie imprese dell’alimentare, del design, dell’abbigliamento, delle scarpe e dell’oreficeria”, è una conferma della validità delle analisi svolte durante la convention. Tanto più che “la precedenza – leggiamo sul Corriere della Sera – sarà data proprio ai prodotti che hanno anche un racconto da offrire e a quelle aziende che non si possono permettere di aprire da sole un negozio monomarca nelle vie principali di Shanghai, New Delhi o Mosca”.
Punto di partenza tuttavia ineludibile di qualsiasi processo di innovazione ed evoluzione resta per la piccola impresa italiana lo scioglimento di un nodo cruciale: quello dell’avvicendamento nella gestione dell’impresa familiare. Tema a cui ha dedicato il suo più recente volume Piero Trupia, padre fondatore dello Humanistic Management e grande esperto della piccola e media impresa nostrana.
“Questo lavoro –esordisce in Premessa – nasce da una lunga carriera nella rappresentanza dell’industria e dell’imprenditoria italiana; ultimamente da un interesse all’impresa di genius loci italiana (testimoniata anche dalla serie di post scritti per questo blog raccolti nella Categoria Genius loci e sregolatezza). Per esempio, il segreto dello sviluppo industriale delle Marche, a partire dal 1950, si deve a una buona agricoltura mezzadrile, all’ordine pubblico nelle campagne, assicurato dal governo pontificio, da un sistema fiscale severo ma non iniquo. Ne è risultata una situazione sociale operativa informalmente cooperativa e una cultura del fare che si esprime ancora oggi nel detto: «S’era detto, s’ha da fa’, che ce vo’». La magnifica industria marchigiana e iesina non è però immune da difficoltà. La prima tra queste, il passaggio generazionale, non gestito, non concettualizzato e non vissuto con la freddezza della ragione, ma, prevalentemente, con gli spiriti vitali di un’imprenditoria eroica”. Ecco allora la proposta metodologica di Trupia, presentata nel libro di cui discutiamo con l’Autore.
MM Perché definisci il passaggio generazionale in primo luogo “una sfida culturale”?
PT Il termine “culturale” non è qui generico. Riguarda la concezione dell’impresa da parte dei diversi membri della famiglia. Per il titolare essa è la sua creatura che soltanto lui sa – può accudire. Se altri si propongono, devono accettare la sua tutela. Per l’erede l’impresa gli è destinata per diritto dinastico. Inoltre egli si ritiene più avanti del genitore. Ha studiato, conosce il mondo più del padre che ha vissuto una vita da prigioniero nell’azienda. Per i familiari che hanno una quota del capitale, l’azienda è un bene che assicura loro una rendita. Sono pugnaci nel difenderla, pronti a travolgere ogni ostacolo senza riguardi di parentela, di opportunità, di bon ton. Chiamo questo modello di comportamento il paradigma Sorelle FIAT. Questo complesso familiare è una miscela esplosiva di pulsioni, emozioni, aspirazioni e, soprattutto, paure. Ne consegue una tendenza alla stasi. Ogni cambiamento è visto come una minaccia.
MM “La problematica del passaggio generazionale –scrivi – riguarda esclusivamente l’impresa familiare senza partecipazione azionaria o con una partecipazione azionaria minoritaria. Il principale problema dell’impresa familiare, dal punto di vista della governance, è il dissidio tra i membri della famiglia. Questo può essere di due tipi: la politica degli investimenti e la distribuzione degli utili”. Ci vuoi illustrare brevemente questi problemi e le sue soluzioni?
PT. È così, con una precisazione. I membri della famiglia non attivi nella gestione non hanno alcuna voglia di mettere mano al portafoglio per investire o per aumentare il capitale. Sono convinti che il titolare che gestisce l’azienda è là per garantire la loro rendita. Il titolare, d’altro canto, è orientato a reinvestire gli utili nell’azienda, quando ci sono, ma non a coinvolgere altri nella gestione. Se i familiari difendono la rendita, lui difende il controllo. L’erede infine, che ha idee grandiose di rinnovamento all’insegna dell’innovazione radicale, viene accusato dal titolare e dai familiari di voler scassare l’impresa per applicare le strane idee apprese nei suoi studi. Anche da qui uno stallo. La soluzione, mi chiedi. Un buon modello di governance e una vera managerializzazione: una distribuzione ragionata di poteri e di responsabilità. Non è vero che la governance si applichi solo alle imprese quotate. Almeno un direttore generale autonomo serve in ogni caso.
MM Uno dei capitoli si intitola significativamente: “Trasferire il sogno o cambiare il sognatore?”, che suona quasi come uno di quei dilemmi amletici su cui abbiamo a suo tempo costruito le fondamenta dello Humanistic Management. Quale è la tua risposta?
PT Il dilemma è solo apparente. Ogni sognatore ha il suo sogno, ma questo può essere l’incubo di una frustrazione mal digerita o una fuga nell’utopia. I sogni vanno interpretati durante la veglia da parte dello stesso sognatore. Una veglia che sia anche vigilanza e quindi valutazione razionale. I sogni non dicono il vero né riguardo al passato né riguardo al futuro; riproducono e accostano in modo confuso pezzi di memoria. Questo per i sogni del sonno: quelli a occhi aperti sono dominati e alimentati dalla fantasia che va bene come vitamina del pensiero, a condizione che non manchi un riscontro di realtà. Un’impresa, codesta, shakespeariana, vale a dire una sfida come tutto nella vita dell’impresa.
MM Nel libro applichi spesso un’altra metafora cara all’esperienza “shakesperiana” dello Humanistic Management: quella del teatro e dell’attorialità. Come la utilizzi in questo contesto?
PT È la vita stessa che pone il dilemma: o si è attori o si è comparse. La terza posizione, quella di semplice spettatore, non esiste, se non per le cose che non sono di nostro interesse. Sia come attori sia come comparse o come spettatori il luogo della vita è teatro, vale a dire un esporsi alla vista, indifferente o critica, del mondo. La scelta umanamente più degna è l’attorialità. Essere attori è in primo luogo essere autori delle proprie azioni, responsabili del proprio comportamento. Se possibile, lasciare un segno del proprio passaggio nel mondo. Studiare il copione, ascoltare il regista, essere in sintonia con gli altri attori e, alla fine, produrre la propria asserzione autoriale–attoriale di contenuto e di recitazione.
MM Un tema fondamentale dal punto di vista della “social organization”: come si può inserire la piccola impresa nel processo di globalizzazione. Tu quale approccio suggerisci?
PT Una piccola impresa familiare ben gestita può affrontare agevolmente il mercato globalizzato. Lo fanno da sempre, anche in questi anni di crisi, le imprese del made in Italy. Sono riuscite a crearsi una nicchia di qualità inimitabile nel mercato globale. Nicchia non è una limitazione, se è uno spazio commerciale connotato da un’offerta caratterizzata. Inoltre, le imprese del made in Italy hanno alle spalle robuste strutture di rappresentanza e di servizio che suppliscono egregiamente ai limiti dimensionali.
MM Concludendo, puoi in sintesi esporre in cosa consiste il tuo modello per l’avvicendamento nella conduzione dell’impresa familiare?
PT Sono tre le mosse che mi sono sembrate strategiche. La prima riguarda l’abbandono dell’approccio oggi dominante d’interpretare il problema dell’avvicendamento in termini psicopatologici. Il genitore fissato nella sua pretesa di dominio personale fino alla morte o all’Alzheimer, l’erede che vuole conquistare un regno che ritiene suo per diritto dinastico non sono malati di mente. Hanno una visione errata del problema dell’avvicendamento che è un problema gestionale e non di stabilità psichica personale.
Sfugge a entrambi la terza possibilità, insita nel termine “avvicendamento”, al posto di passaggio generazionale così carico di destino e quindi di dramma (ancora Shakespeare). Non è, questa, una soluzione obbligata. È un’alternativa da non scartare a priori.
Questo dell’avvicendamento è il modello Valletta che però non ha avuto seguito.
La seconda mossa mira a installare anche nell’impresa familiare, di piccola o grande dimensione, un modello di governance, nella logica del quale l’avvicendamento è un problema gestionale a scadenza incerta nel quando e non nel come.
La terza mossa è la defamiliarizzazione del problema della gestione e, in esso, dell’avvicendamento. Un problema di cultura aziendale, da affrontare freddamente, fuori dalle mura domestiche trasudanti tensione. Dove? Nei luoghi molteplici della rappresentanza imprenditoriale e della consulenza manageriale. L’Associazione italiana delle Imprese Familiari (AIDAF), le associazioni industriali di luogo e di mestiere, il Movimento dei Giovani Imprenditori, le Camere di Commercio, l’Ordine dei commercialisti e, perché no, Rotary e Lions. In queste sedi sarà più facile elaborare in termini generali e spersonalizzati una cultura organizzativa non parrocchiale e condurre, tra attori, un confronto spassionato su un tema più ampio rispetto all’avvicendamento, che è però ricompreso, quello di una cultura italiana dell’impresa conviviale e di genius loci.
Non si tratta di organizzare convegni o seminari, con l’intervento magistrale di qualche costoso guru, le cui idee sono peraltro rinvenibili su pubblicazioni a stampa o su internet. Basta un moderatore che può essere, di volta in volta, il padrone di casa o un suo incaricato, per avviare e portare a conclusione un dialogo sul tema.
È un modo per esercitare attorialità e quindi dominio cognitivo e performativo sullo scottante argomento. Sul quale, è certo, tutti hanno riflettuto e rimuginato. È altrettanto certo che i tentativi di comunicazione intra moenia, aziendali o familiari, sono fatalmente inficiati da pregiudizi, sospetti reciproci, retropensieri negativi. Una pubblica agorà tempera queste pulsioni, educando a un dialogo moderato, nel duplice senso di regolato e depurato da rivendicazioni libidiche.
Questa la proposta. Sarà accolta?