Condivisione, collaborazione, social networking

Architettura social networkingCosa c’è di più social della Pubblica Amministrazione?

Niente, si potrebbe rispondere, considerando che la gestione della cosa pubblica è social per eccellenza; tutto, si potrebbe però anche dire, se si considera quanto lavoro ci sia ancora da fare per sburocratizzarla, efficientarla (orribile neologismo, peraltro codificato dal Grande Dizionario Hoepli, ma insomma rende l’idea), avvicinarla ai cittadini: in una parola, trasformarla secondo le logiche e i criteri del Management 2.0.

Non nascondo quindi che mi ha fatto piacere l’ottimo articolo di Eleonora Bove, apparso il 18 novembre sul blog del Forum PA, dal titolo The Engaging City: quando un like non è partecipare, esplicitamente ispirato alle tesi da me sostenute nel volume L’intelligenza collaborativa. Verso la social Organization     e più in generale ai principi dello Humanistic Management 2.0 che vado elaborando nella teoria e praticando nella mia vita professionale, da ormai più di 20 anni.

L’autrice si sofferma in maniera particolare sul concetto di engagement, applicato allo specifico ambito della PA, che così inappuntabilmente definisce:

“E’ un                  ambiente sociale     in cui si attivano percorsi di costruzioni di senso;

è uno          spazio che genera valore,         in cui si incontrano le esigenze della cittadinanza e gli obiettivi dell’amministrazione;

è una        dinamica attiva,        varia di intensità a seconda delle persone e dei momenti, ma è sempre “on”;

è                 immediatezza,            tanto più i risultati sono visibili e immediati, tanto più sarà alto il livello di coinvolgimento;

è un    processo    che si autoalimenta: usufruire di un servizio, alla cui definizione si è preso parte attiva, aumenta la soddisfazione e rende molto probabile che si rinnovi l’impegno;

è    metodo    le cui linee di lavoro variano nel tempo perché, sottoposte a continua verifica, richiedono di essere modificate”.

Questa definizione è anticipata dalla ripresa dei principi chiave della partecipazione democratica che, ci ricorda Eleonora,  l’International Association for Public Participation (IAP2), dopo un confronto internazionale durato due anni, ha così descritto:

1. La partecipazione pubblica si basa sulla convinzione che coloro che sono interessati a o da una decisione abbiano il diritto di essere coinvolti nel processo di assunzione della decisione stessa.

2. La partecipazione pubblica include la promessa che il contributo del pubblico eserciterà effettivamente un’influenza sulla decisione finale.

3. La partecipazione pubblica promuove decisioni sostenibili riconoscendo e comunicando le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti, inclusi coloro che assumono le decisioni finali.

4. La partecipazione pubblica ricerca e facilita il coinvolgimento di coloro che sono potenzialmente interessati a o da una decisione.

5. La partecipazione pubblica ricerca il contributo dei partecipanti nel progettare le modalità con cui partecipano.

6. La partecipazione pubblica fornisce ai partecipanti le informazioni necessarie affinché possano partecipare in modo significativo.

7. La partecipazione pubblica comunica ai partecipanti come il loro contributo ha influenzato la decisione finale.

Cosa significa creare un ambiente sociale in una impresa?

Il ragionamento sopra esposto può essere traslato a mio avviso completamente alle aziende private che vogliano trasformarsi in social organization. Nella mia pratica quotidiana di consulente mi scontro con numerosi ostacoli alla realizzazione di questo obiettivo, uno dei quali è la mancanza di chiarezza nei miei interlocutori manageriali (a partire dai Direttori HR e dai top manager che presidiano la linea) rispetto alla necessaria distinzione, sia sotto il profilo tecnologico che del modello organizzativo, fra tre ambiti o fasi di sviluppo aziendale: la condivisione, la collaborazione e il social networking. Ne propongo quindi di seguito una possibile definizione (chi ha contributi sul tema è caldamente invitato a proporli sotto forma di commento a questo post).

1) Condivisione. Fase di sviluppo aziendale in cui voce stand-alone, video e trasmissione dati sono integrati in applicazioni convergenti. Questa fase viene generalmente guidata dalla necessità di aumentare la produttività. Nella fase di convergenza con le applicazioni, vengono introdotte funzioni aggiuntive per gli utenti, tra cui audioconferenza e informazioni su chi chiama. L’uso di informazioni sulla presenza permette ad esempio di visualizzare se i contatti sono o no al telefono e di abilitare applicazioni, come la messaggistica istantanea.

I processi di comunicazione interni sono limitati al file sharing e versioning,  assai spesso attraverso l’utilizzo di Sharepoint. Questo punto, che può sembrare squisitamente tecnologico, ha invece una rilevanza manageriale molto concreta. In moltissime aziende riscontro che i responsabili IT (in diversi casi, mi duole dirlo, incredibilmente poco aggiornati riguardo a caratteristiche e potenzialità offerte dai social tools oggi in commercio) tendono a spacciare Sharepoint come uno strumento di social networking, cosa che palesamente non è, nonostante il restyling del tutto superficiale della nuova edizione 2013. D’altro canto, se Sharepoint fosse uno strumento di collaboration e social networking, non si capirebbe come mai Microsoft ha speso 900 milioni di dollari per acquistare Yammer, che peraltro a tutt’oggi non sembra essere stato per nulla integrato a tutta la restante offerta Microsoft, a partire proprio da Sharepoint.

Questo diffusissimo attaccamento degli IT manager a Sharepoint e in generale la loro diffidenza/ostilità nei confronti dei veri strumenti di lavoro collaborativo (che probabilmente – e a ragione – vivono come minaccianti il loro ormai pluridecennale status di assoluti despoti della comunicazione interna, quasi sempre in totale spregio delle vere necessità degli utenti finali e della semplicità d’uso delle varie funzioni) produce seri danni alle aziende, che restano imprigionate dai limiti di Sharepoint e di fatto si precludono la possibilità di avanzare nel processo di trasformazione verso i due successivi stadi della Collaborazione e soprattutto del Social networking.

2) Collaborazione. Fase dell’azienda in cui sotto il profilo tecnologico il progetto e l’implementazione dell’architettonica per assicurare la convergenza voce e video su reti dati si sono ormai pienamente dispiegati. Si cominciano ad affrontare le sfide legate alla diffusione dei dispositivi mobile e al passaggio al cloud, un modello per cui si ottiene la massima flessibilità operativa, perché l’elaborazione, lo storage e l’uso di applicazioni software si sposta nella nuvola, potenzialmente nell’infinità di server connessi a Internet, e tutto è governato da servizi misurabili che trasformano l’uso dei computer e del software in utility. In pratica, il ricorso a piattaforme di cloud computing offre agli utenti risorse per la memorizzazione, il processamento e la condivisione di vaste moli di dati su macchine virtuali poste in remoto accessibili mediante il web.

Sotto l’aspetto gestionale, gli strumenti di management 2.0 hanno  impatto sui comportamenti organizzativi e sul project e knowledge management (ad esempio, attraverso l’utilizzo di calendari condivisi), ma non sui processi organizzativi (non sono quindi state create brand community per la co-genenerazione di prodotti e servizi con i clienti, modalità di employer branding online o servizi di social media customer care, ad esempio, ma soprattutto community per la gestione dei processi critici interni all’azienda).

3) Social Networking. In questa fase l’azienda si è dotata di un vero sistema di lavoro “social”, che fondamentalmente comporta non solo la diffusione di piattaforme di networking  quali Yammer, Chatter, Jam, eccetera, ma più compiutamente:

a) la creazione di un Social Portal: un “entry point” che consenta a tutti la doppia visione, ovvero l’accesso al profilo individuale e alle community corporate (e a quelle emergenti dal basso) secondo lo schema sopra riportato:

b) l’abilitazione di un profilo individuale da cui è possibile:

– Gestire in autonomia i propri dati organizzativi (nome, cognome, foto, ruolo, referenti gerarchici e funzionali, eccetera)

– Reperire rapidamente le persone che servono (esperti online)

– Postare un messaggio di stato per comunicare dove si è/cosa si sta facendo

– Creare e sviluppare un proprio network professionale (attraverso la costituzione di gruppi)

– Comunicare con il proprio network esperienze e know how (attraverso tag)

– Seguire persone, gruppi e oggetti (file);

c) l’istituzione di Community Corporate (potenzialmente aperte a tutti gli stakeholder interni ed esterni in relazione al processo cui fanno riferimento) come quelle emergenti dal basso (attraverso il profilo individuale) che devono potere essere create sulla base dei principali social tools ovvero: Blog, Forum, Wiki, Idea management, Bookmarks, Sondaggi, File sharing & versioning (per questa ultima funzionalità si può usare Sharepoint).

E’ essenziale inoltre che d) la piattaforma sia corredata di un sistema di social analytics; e) sia utilizzabile da mobile.

E’ indispensabile infine f) la redazione e diffusione di una social media policy (cfr su questo il capitolo 10 de L’intelligenza collaborativa) e più in generale di un sistema di Governance 2.0.

 

 
  • Marco |

    @PierAngelo: certamente! Il libro L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization http://www.marcominghetti.com/opere/lintelligenza-collaborativa-verso-la-social-organization/) è stato scritto proprio per consentire anche ai non specialisti di impadronirsi dell’argomento.

  • PierAngelo Carrara |

    Salve. Forse sono un “ferro vecchio”, e ho difficoltà a sintonizzarmi sui termini del web e sul suo utilizzo.
    Peccato che io condivida pienamente “i concetti” che mi pare siano sottostanti ad un certo uso del web.
    C’è qualche possibilità di salvezza per me?

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