Vendere con le community

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E’ da qualche giorno disponibile in libreria la nuova edizione di Vendere con le community, di Giampaolo Colletti, giornalista e ideatore di Wwworkers.it. La struttura del volume è rimasta sostanzialmente invariata, ma propone 30 nuove case history di brand community di successo. Resta infatti la community il punto di riferimento del testo: “Le community, a torto o a ragione, sono divenute in questi ultimi tempi l’aspetto del digitale più affascinante ma ancora sconosciuto ai più, potenziale alcova del business ma ancora forziere blindato per i canali di vendita. Le community – da quelle di prodotto o aziendali a quelle puramente valoriali – si sono moltiplicate affermandosi nel sottobosco dei social network. Anche per Don Tapscott, Ceo di New Paradigm, «le imprese devono smettere di pensare a siti internet o intranet e costruire comunità»”. Abbiamo parlato di tutto questo parlato con l’autore ed ecco la conversazione che ne è scaturita.

MM: Il tuo libro nasce da una esperienza concreta. Come racconti avevi la responsabilità di una community autogenerata da dipendenti di un’importante multinazionale di telefonia mobile, per la quale curavi la web tv interna. Hai così scoperto, scrivi, “il suo enorme potenziale. Oggi, nella mia attività di giornalista e imprenditore della rete, dialogo abitualmente con diverse community online”.

Mi sembra una testimonianza importante di un concetto su cui insisto da molto tempo: la necessità di allineare le conversazioni interne ed esterne rispetto a valori, modelli organizzativi e linguaggi, per abilitare la sua trasformazione in social organization, ovvero in una rete di community collaborative orizzontali che sostituisce il modello burocratico Comando e Controllo fondato su gerarchia e divisioni funzionali verticali. Sei d’accordo?

AmadoriGC: Condivido in pieno e credo che il percorso di engagement, che spesso riporti sui tuoi post, sia un’azione troppo spesso trascurata nella comunicazione interna digitale e che oggi manifesta con gran forza la sua attualità per un allineamento necessario ai valori esterni del brand.

Oggi una buona community aziendale, che sempre più spesso nasce da ambienti digitali multimediali dove il video la fa da padrone, deve presupporre un’azione preparatoria seriale, costante, autentica con il target interno dell’azienda. Io chiamo queste azioni ascolto e “patto dei forti”, ovvero la creazione di una comunità forte interna con ambasciatori della vision dell’azienda.

Le migliori realtà aziendali, non necessariamente multinazionali (vedi il caso Amadori riportato a fianco, ndr), hanno compreso questa importanza strategica di allineamento dei valori interni/esterni, anche proprio per l’accrescimento del business. I nuovi strumenti digitali, mobili, liquidi, pervasivi, hanno enormemente accelerato questa esigenza, ma di fatto costituiscono anche un potenziale per mettere in atto politiche di questo tipo.

MM: I valori diffusi e le modalità di engagement di una social organization sono esattamente opposti al modo tradizionale (Scientific Management o Management 1.0, come lo chiama Gary Hamel) con cui sono gestite ancor oggi un gran numero di aziende. Casi come il flop (almeno in Rete) di “I Guerrieri” di Enel, in cui si cerca di mescolare piuttosto goffamente il linguaggio televisivo broadcasting con quello peer to peer dei social network, ma anche l’imbarazzante “Mi scuso” su YouTube di Guido Barilla rispetto alle esternazioni televisive sul tema delle coppie omosessuali, mi  sembra dimostrare che le grandi aziende italiane, salvo qualche caso di eccellenza, sono ancora immerse nel sonno dogmatico del taylorismo e del più tradizionale paternalismo. Che ne pensi?

Vend comm windGC: Sono d’accordo che questi tentativi si siano rivelati di
fatto fallimentari, anche se credo siano nati con le migliori intenzioni. Ma il problema
è legato al cambio pelle (generazionale, di linguaggi, di prospettiva) di
questi brand che devono di fatto passare da una visione broadcasting ad una visione partecipata e narrowcasting. Non è operazione semplice e scontata quando vai a integrare approcci comunicativi molto differenti.

Nel caso di Enel io ho trovato coraggioso il fatto di avviare una narrazione corale, lo storytelling a cui anche tu dedichi tante attenzioni. Temo però sia mancato un presupposto: ascolto autentico e “dal basso” di una community che non è stata intercettata chiaramente se non con lenti pubblicitarie che oggi non funzionano più per leggere una realtà complessa.

E nel caso di Barilla una preliminare sottovalutazione del buzz in rete che anche se in Italia va ad impattare per una fetta di popolazione limitata, all’estero può generare molte più problematiche anche ai fini del business. Comunque l’ho scritto chiaramente sul mio post sul Fatto Quotidiano, Barilla non è stata in grado di leggere né la realtà esterna né quella interna, perché simili dichiarazioni impattano anche sulla propria community aziendale.

MM: Dedichi un intero capitolo alla figura sempre più importante del community manager. Citando Chéreau: «L’animazione delle community è una professionalità in via di normalizzazione, ma non sarà mai una “scienza esatta”. Ciò è dovuto a una ragione molto semplice: le community hanno una vita propria con regole flessibili in funzione degli obiettivi, degli usi e delle tendenze. La loro animazione richiede di conseguenza una grande flessibilità e un metodo di lavoro particolarmente agile». Vuoi provare a riassumere in che cosa praticamente consistono questa flessibilità e agilità?

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GC: Io credo che la chiave sia l’ascolto, presidiando di fatto le conversazioni e incentivando/orientando alcuni elementi che si ritengono chiave. Ecco perché la gestione di una community non è una scienza esatta: presuppone un susseguirsi di flussi comunicativi che evolvono a seconda dello “stream” conversazionale.

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Il buon community manager deve saper “leggere” questi stream e intervenire in tempi celeri – l’importanza del feedback ha ridotto di fatto i tempi di risposta – con una posizione chiara, autentica, rispettosa e soprattutto coerente con l’azienda, la sua vision e la sua community.


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MM: La novità della nuova edizione del libro è soprattutta la presenza di nuove case history. Rispetto a quelle da te mappate solo tre
anni fa, queste nuove hanno delle caratteristiche differenti, rivelano nuovi trend?

GC: I trend che ho respirato hanno a che fare con  una maggiore verticalizzazione dell’offerta, una segmentazione tematica che di fatto sta generando anche community e micro-community ad alto impatto valoriale ma anche con numeri più esigui, con strutture più snelle. E poi la moltiplicazione di supporti di fruizione mobili – dagli smartphone ai tablet – sta accelerando il processo di frammentazione delle informazioni, sempre più snack. Questo comporta una sintesi che spesso però è foriera di fraintendimenti e interpretazioni contrastanti.

MM: Tornando alla necessità di rendere coerenti le conversazioni fra e con tutti gli stakeholder, interni ed esterni, quali fra le aziende da te citate ritieni più avanzate nel processo di allineamento fra conversazioni interne ed esterne?

GC: Credo che le aziende legate al green, al wellness, al food siano quelle che oggi più che mai possano accrescere il potenziale delle community e integrare la loro vision ai bisogni degli utenti che, di fatto, sono sempre più istruiti, alfabetizzati alle conversazioni, in altre parole digitalizzati.

  • Eugenio |

    Da non dimenticare che le community ricevono contenuti dal pubblico, quindi posizionando meglio tra i risultati dei motori di ricerca

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