Genio e regolatezza XIII
Di Piero Trupia
Nel suo bazar fa carriera solo chi si rende conto dell’altro e realizza che il nemico è in agguato, ma non fuori bensì dentro. Si, dentro di te. Ha un nome buffo […] si chiama Ego. Nel bazar […] ognuno impara ad ascoltare se stesso. […] lo stress non c’è […] ti accorgi di una piccola grande Magia […] tutto fila a meraviglia.
(Episodio N° 32 de Le Aziende In-Visibili romanzo a colori di Marco Minghetti & The Living Mutants Society. Con 190 immagini di Luigi Serafini. Libri Scheiwiller, 2008)
Non esistono prodotti poveri, se chi li fabbrica sa arricchirne le prestazioni; non esistono prodotti maturi se si riesce a individuarne nuove prestazioni. Vale per la ruota, la terza invenzione dopo la scheggia di selce, il fuoco e il tronco rotolante.
L’azienda Rosolani di Jesi produce ruote di tutte le dimensioni: per le carrozzine, i carrelli del supermercato e i grandi veicoli industriali compresi i carrelli a spostamento automatico del magazzino merci. Ruote fisse e ruote piroettanti, a semplice rotolamento o motrici.
Non c’è niente di più penoso, per noi, dice l’omonimo titolare, di un carrello al supermercato o all’aeroporto cigolante, zoppicante o che va alla deriva, insensibile al comando, specie quando il carrello è sovraccarico, con merce, valige e un bambino. Per non parlare dei grossi carrelli industriali ove l’efficienza della movimentazione è un anello della catena del valore e il cedimento di una ruota può essere molto pericoloso.
Difficile comprendere l’accanimento negoziale di certi addetti agli acquisti. Non considerano che il prezzo da noi richiesto è il costo di una prestazione fornita e assicurata. Il principio value for money dice che non esiste prezzo alto, se è corrispettivo di un valore d’uso.
Se le quattro ruote di un carrello cigolano in un ipermercato non è un problema. Diverso se sono le quattrocento ruote di cento carrelli. Il nostro obiettivo è zero cigolio.
Siamo figli dell’artigianato e dell’innovazione di quel ciabattino che, due generazioni fa, inventò le zandale, sandali ricavati dai copertoni smessi, la cui carcassa a quel tempo era di filo di cotone e non d’acciaio. Li vendeva nelle fiere e andavano a ruba in quei tempi di penuria. Con il guadagno ha fondato questa nostra azienda.
Nelle Marche agricole la sopravvivenza era assicurata dalla continua invenzione e dall’accurata manutenzione, insieme alla capacità di attesa della maturazione, virtù perduta con la smania odierna di risultati immediati e l’attesa febbrile della trimestrale.
Per chi aveva un po’ di fortuna, l’impresa agricola o artigiana, il palazzetto in città, la villa fattoria in campagna erano i titoli per essere presenti nella comunità degli affari, per aver credito e rispetto. Naturalmente se si era affidabili, se non s’imbrogliava né i clienti né i collaboratori. In più la consapevolezza che tutti avevano bisogno di tutti, che si era un nodo nella trama di un tessuto. È così che nelle nostre aziende oggi i giovani imparano il valore della stabilità dell’impiego e dell’essere parte di un tutto. È nostra cura professionalizzarli ed è loro interesse capitalizzare la loro appartenenza.
Il nostro è un prodotto povero, ma solo all’apparenza. Non sono poveri i prodotti le cui prestazioni sono utili, che contribuiscono a creare ricchezza.
Abbiamo sempre in vista la creazione di valore dei nostri clienti, i cui processi produttivi di fatto internalizziamo nella nostra gestione. Con i clienti è il rapporto personale a regolare la comunicazione e lo scambio. Nella globalizzazione, cerchiamo di creare presso il cliente, compratore o fornitore, un piccolo spazio di comunicazione empatica.
Certo non facciamo ricerca ma abbiamo un laboratorio di prove, collaudo e sperimentazione e seguiamo l’evoluzione nel nostro campo di prodotti, materiali e componenti. Riusciamo sempre ad aggiungere, a migliorare. Abbiamo scelto la fascia alta della produzione, per quella sopravvivenza che solo il monopolio della qualità artigianale-industriale può garantire.
N.B.: Ne Le Aziende In-Visibili è dato incontrare un linguaggio nuovo che si sporge oltre la frontiera dell’inverosimile, senza concedersi all’azzardo del puro segno, quello che ha come referente altri segni nella semiosi infinita, lasciando al lettore l’onere di cercare un aggancio non nella realtà esterna, ma in quella del suo privato immaginario. È questo, è bene dirlo, il segreto gaglioffo di tanti scrittori contemporanei la cui missione e segreto editoriale è solleticare il lettore affinché secerna un suo qualsivoglia umore, come quelle formiche che titillano il ventre dell’afide, il parassitizzato parassita.
Ecco un brano dall’episodio N° 32 (s’intende non mirmicologico-afidario):
“Un grappolo ideario subconscio e vagante di input viscerali per lo più cutanei […] dette luogo a una fase preonirogena…”
È un’apertura simbolico-segnica che apre al successivo improponibile universo di discorso dell’evangelico Discorso e al sempre attuale e sognato miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci.