Pino Varchetta: L’ospite inatteso (regia di Thomas McCarthy)
J. Urdizil, classico scrittore mitteleuropeo, nel suo romanzo L’amante perduta del 1956, scrive “Com’è che muore un essere umano? [risponderemmo noi] quando il suo cuore cessa di battere: è certamente questo il modo più conosciuto – oppure quando diventa come gli altri: molti muoiono così, e nessuno di bada, spesso essi stessi non se ne accorgono per tutto il resto della cosiddetta vita, se non qualche rara volta, per la durata di un secondo, ma questa consapevolezza se la scuotono di dosso come un granello di polvere da un vestito”.
Walter Vale, il protagonista di The visitor, USA 2008, è un uomo morto a metà, o forse per intero. Da poco vedovo – l’universo affettivo della coppia venuta a cessare con la morte della moglie è un campo inesplorato nel film – insegnante universitario, inganna se stesso e gli altri ripetendo da 20 anni lo stesso corso all’università e mentendo a se stesso nel sostenere di essere impegnato nella scrittura di un libro. C’è un’unica traccia di verità nella sua vita solitaria, a dir poco melanconica, ed è il suo progetto di imparare a suonare il pianoforte. Ma anche quest’ultima intenzionalità è un falso operativo, nella misura in cui il Prof. Vale alla tastiera non solo non dedica tempo, ma non confessa nei suoi rari dialoghi con i tasti bianchi e neri di avere mani non leggere e sufficientemente eleganti. Quello che ne esce sono suoni stentorei, plagi, nessuna emozione, nessuna verità. Probabilmente, tuttavia, il Prof. Vale coltiva, diciamo inconsciamente, ancora qualche speranza: infatti la vita lo premia con modalità apparentemente casuali. Noi sappiamo in verità che il caso va incontro a chi se lo merita e probabilmente, anzi certamente, Walter Vale meritava ancora qualcosa dalla vita, forse un’ultima chance. Ha un appartamento a Manhattan, in città, dove passa pochi giorni all’anno e dove giunge, spinto da una curiosità e da un progetto vago. Nell’appartamento, che pensa vuoto, incontra due ospiti inattesi, o forse, in realtà due “attesi imprevisti”: una giovane coppia, Tarek e Zainab, non ancora trentenni, lui siriano, lei senegalese. Qualcuno, e nel film non si capirà mai l’identità di questo qualcuno, ha truffato loro e Vale, il legittimo proprietario, abusivamente affittando quel luogo vuoto, fatto apposta per accogliere una giovane coppia che arriva spaurita e bisognosa di tutto da località lontane, povere, dalle quali i giovani oggi partono, cacciatori di speranza. Stanno per andarsene, consci di essere abusivi, ma il Prof. Vale ha un guizzo, quel minimo di vita vera che ancora riusciva a ospitare lo induce a proporre loro di restare finchè non troveranno un’altra sistemazione. Da questa contingenza, o per meglio dire da questa emergenza, la storia evolve in maniera insperata: il giovane Tarek è un musicista etnico, suona il tamburo africano, quel grosso strumento tenuto fra le gambe del suonatore e capace di produrre un suono straordinario, ritmato. L’ospite diventa allievo dell’ospite inatteso, che si rivela, appunto un “atteso imprevisto” e le dita un tempo goffe sulla tastiera del pianoforte di Vale, diventano magicamente flessuose, capace di generare da quel piano di pelle dura, tesissima, un suono ritmato, pieno di evocazioni, denso di mistero e di richiami indecifrabili. Le leggi in materia di immigrazione negli Stati Uniti sono severe e soprattutto sorde alla peculiarità dei vari casi, inflessibili nella loro incapacità di gestire le unicità che le diverse vicende umane che si presentano agli sportelli burocratici urlano timidamente, sperando di essere ascoltate. Vale si infila in questo ginepraio misterioso quanto impenetrabile e tenacemente cerca di superare ostacoli diversi, non accettando che Tarek e la sua compagna siano derubati della loro vita e della loro speranza. E così avviene un piccolo, straordinario miracolo: prendendosi cura per quello che può dei suoi due giovani ospiti, Vale diventa cura in sé e, come tale, diventa capace di curare se stesso e di riprendere in mano la propria esistenza che lassù, nel campus di provincia, gli stava sfuggendo, giorno dopo giorno, impercettibilmente. La burocrazia vince e la battaglia di Vale si ferma contro un muro impenetrabile. Le norme non ascoltano e negano ogni peculiarità, ogni narrazione diversa dalla loro. Ma la sconfitta non è totale e se i due giovani devono ritornare sul loro sentiero lungo il quale erano venuti pieni di speranza, il Prof. Vale afferra il tamburo di Tarek, scende nella metropolitana di New York e suona quel tamburo, suona quella musica che non è la sua musica, quella del piano, ma la musica di quei due giovani che il suo Paese non ha voluto e saputo ospitare. Suona la musica dei reietti, degli ultimi. E’ diventato, il Prof. Vale, un “uomo in rivolta”, ma la sua vita, ora, ha recuperato finalmente un senso.