Di Piero Trupia
Nella cattedrale di S. Martino a Lucca è custodito il Volto Santo, un crocifisso ligneo scolpito tra XI e XII secolo, forse ad imitazione di uno ancora più antico di area bizantina. Ne darebbero testimonianza alcuni particolari figurativi e la ieratica rigidezza del Cristo. È citato da Dante in Inferno, XXI, 48.
Una leggenda dice che lo realizzò il fariseo Niccodemo, testimone della Passione. Avremmo così il vero volto di Gesù. Niccodemo però si addormentò prima di aver scolpito la testa e la trovò pronta il mattino dopo. Un’opera acherotipa quindi (non realizzata da mano umana). Una verità soggettiva che suggerisce e autentica l’approccio devozionale dei lucchesi al volto Santo.
La statua è di grandi dimensioni, a croce greca, con i due bracci uguali di 2,75 m. Doveva essere collocata in alto e per questo motivo il capo è rivolto verso il basso.
Non era originariamente un Cristo nero. Lo è diventato per la fuliggine dei ceri, tranne i piedi, puliti dalle carezze dei devoti (e questa può essere la comune origine di tante madonne nere). Un cassettino, dietro la nuca, oggi vuoto, conteneva una reliquia come i tanti crocefissi provenienti da Gerusalemme.
Il viso è allungato, il che dà più forza all’espressione riflessiva e all’orientamento verso i fedeli in basso; gli occhi sono aperti e lo sguardo intenso: è la figura del Christus Triumphans e non Patiens, più comune e con gli occhi chiusi.
Il corpo è interamente ricoperto da una dalmatica, tunica medievale di origine romana, che nel secolo IX si accorciò nella lunghezza e nelle maniche, il che attesterebbe l’anteriore datazione dell’opera da alcuni sostenuta.
La figura esercita un forte impatto emotivo e questo è un dato semiotico da interpretare.
Il Cristo è vivo e pensoso come a ripercorrere l’intera vicenda della sua incarnazione. Il consenso delle folle, oltre quello interessato dei postulanti, l’adesione vocazionale di un piccolo gruppo di partecipi, comprese quelle donne che hanno infranto il tabù di una vita pubblica loro interdetta, l’avversione di principio e d’interesse della casta sacerdotale, l’annoiata indifferenza di Pilato, l’accettazione da parte dei propri genitori della sua vocazione prima, del suo destino poi. Il volto, assorto, condensa e trattiene il dolore fisico. Detto questo, resta e s’impone la straordinaria energia dell’opera. Risulta dalla composta geometria della figurazione che anticipa quella dell’uomo inscritto nel cerchio di Leonardo.
Il crocifisso è teso ma non rigido, con le mani e i piedi espressionisticamente allungati in una tensione verso l’infinito, oltre la circonferenza ideale del perimetro.
Credo si possa dire che questa figura anticipi figurativamente la concezione einsteiniana dello spazio. Non un contenitore vuoto, ma un intreccio di linee di energia.
Le pieghe della dalmatica non sono allora un generico ornamento. Raffigurano un campo di forze che spiega l’impatto immediato della figurazione. Con qualche eccezione, quale la lieve arcatura del corpo verso destra sotto il peso e l’abbandono del capo verso sinistra. Un’analogia con quelle “pieghe del tempo” dell’universo in formazione, di cui ci parla George Smoot nel suo Wrinkles in time. The imprint of creation.
Abbiamo un centro geometrico nell’ombelico e un centro attanziale, quello che definisce il ruolo drammaturgico dell’attore, nel volto. Le line di forza prima convergono nel centro geometrico, per dirigersi poi verso l’alto, prolungarsi nelle maniche ad inquadrare dal basso il volto, inquadrato, dall’alto, dalle due bande della capigliatura che si chiudono a freccia sotto il mento in direzione dei fedeli. Coerentemente, la scriminatura è in linea con il naso, attraversa il centro della bocca e la “V” della freccia. Una precisione cubista, ulteriormente accentuata dalla cintura, dal bordo della tunica e dalle due liste verticali, coordinate cartesiane di questo spazio-mondo del riscatto sacrificale.