Dunque, come si può essere performativi e non descrittivi? “La razionalità prescrittiva non basta” (Le Aziende In-Visibili, p. 115). Io vivo nel momento in cui qualcuno legge quello che ho già scritto. Il tuo presente, ora, in cui stai leggendo, è il futuro di questo presente, in cui sto scrivendo. Questo presente è sia il mio di ora che scrivo, sia il tuo di ora che leggi. Parliamo del tuo momento, lettore, e del mio che ora rileggo il post che ho scritto. La manifestazione del tuo\mio presente è una relazione intenzionale che alcuni chiamano ONFENE (da ONtologia FENomenologia Epistemologia). La lettura di questo post è un evento caratterizzato da esistenza, rappresentazione e relazione-con. Io e te, ora, siamo in una relazione intenzionale. Il mio post è una rappresentazione elettrica di me, è lo “specchio virtuale” in cui il mio corpo analogico si sdoppia e diventa due cose in una: l’osservato-re. Un io-processo sociale e un io-processo mentale. Questa è la scrittura elettrica: partecipativa e performativa in sé. Il post, colui che lo scrive e colui che lo legge sono un tutt’uno. Almeno potenzialmente. Qui, probabilmente, il nostro io-processo mentale diventa un io-processo sociale. Qui, il nostro schema corporeo-analogico si sfalda e diventa “identità liquida”. Possiamo anche scrivere più di un commento con nickname differenti ed esprimere giudizi del tutto opposti tra loro. “L’Invisibile che determina il Visibile” (Le Aziende In-Visibili, p. 141), lo può anche mutare, il visibile. Fra me e te vi è un’inter-relazione strana, ambigua, e una foto-nick non garantisce la nostra vera identità. Tutto è probabile perché tra noi v’è un processo frattalico, in-divenire. Siamo assenti l’uno all’altro. Solo la de-scrittura ci rende com-partecipi. L’inter-assenza è l’esser-ci digitale nella modalità inautentica dell’analogico. Qui c’è ancora un soggetto-oggetto. Io desidero il s-oggetto. Desidero l’osservato-re: desidero osservare il mio s-oggetto mentre diviene sotto i vostri sguardi. Io desidero SL. Non nel senso che vorrei provare SL, ma che vorrei vedere il mio avatar desiderare e scrivere di sé. Vorrei un’osservazione partecipante. Un avatantropologo. Un etnografo del s-oggetto.
Mandare il s-oggetto in avanscoperta in SL. Ecco, in questo post siamo ancora nel modo analogico del digitale. Fra me e te c’è l’ostacolo della scrittura che si pone nel modo della superabilità. La scrittura elettrica ha questo di particolare: esiste per essere superata, per essere trascesa, esiste nel suo vedere-oltre (theatron) il proprio segno. Un segnale che richiede un’altra dimensione che si aggiunga a questa. Saltiamo allora nello “specchio virtuale”. Nella dimensione del s-oggetto l’esser-ci diventa un veder-ci. Il fenomeno virtuale attrae lo sguardo e se ne appropria. Lo sguardo diviene altro dall’occhio-sguardo puro in-formato dalla luce della pittura e del cinema: lo sguardo diventa un corpo magnetico: attrae a sua volta l’occhio-sguardo puro dall’analogico e lo trasforma in organismo automizzato, sguardo-oggetto. Lo sguardo, come azione e oggetto, è inform-azione. L’occhio è desiderio di fare il mondo-oggetto virtuale che gli sta intorno. L’avatar è quello sguardo-oggetto che diventa corpo magnetico. In tutto questo guardare e sguardare e fare guardando, c’è lo spettatore-occhio, il nostro occhio, che assiste il nostro sguardo e quello degli altri avatar in un interrotto “osservarsi-desiderando-sapere”. Ecco però una contraddizione che ribadisce la presenza dell’ostacolo: noi siamo immobili e il nostro corpo magnetico (l’avatar) va in giro a cercare informazioni per il suo mondo-oggetto virtuale. Questa, però, è un’immobilità del tutto particolare: è una quiete in movimento di un io-analogico che è l’altro digitale. Una sintesi di opposti che solo il Potere vuole divisi, ma che sono sempre stati uniti nella loro inconciliabilità: sintesi mediana, la chiamo. Il mio avatar la vive e la rappresenta. Questo è il suo controtempo. Il compito del mio avatar è rendere presente il mio immateriale analogico col suo immateriale digitale, continuamente, perché il mio corpo analogico non può farlo. Questo è l’ostacolo-ponte tra me e il mio avatar. E lui, il mio avatar, è l’ostacolo nel suo superamento. Nel modo organico del digitale, il mio avatar è un personaggio elettrico, un nome-link che si muove nella dimensione della scrittura elettrica. Nel mo(n)do virtuale del digitale, il mio avatar è dotato di sguardo e di inconscio (elettrico); il mio corpo analogico deve saltare dalla scrittura elettrica alla coscienza elettrica. Non v’è passaggio graduale. Tutto è stacco. Trauma. Come s’incastrano, allora, il flusso desiderante del corpo analogico e il flusso elettronico del corpo magnetico? Gli avatar “sono qualcosa che sta lì” e sono della stessa “natura dei sogni che giungono nel sonno della morte” (Le Aziende In-Visibili, p. 146). Il correlativo virtuale della schizoanalisi di deleuziana memoria, una paradossale metempsicosi delle anime in vita; una metapsicosi, ribatte e precisa il s-oggetto di là dal monitor, dallo studiolo del suo metaverso.
S-oggetto: “Lascio uno spazio per prendere tempo. La struttura della performance è vincolata alla struttura ambientale e alla sovrastruttura economica dello spazio-tempo nel quale la performance stessa si autogenera attraverso un processo spontaneo e omeostatico. Ricorda molto la neurologia: la pompa ionica che permette lo scambio di ioni potassio e ioni sodio, nello spazio intersinaptico tra un dendrite e un assone. La pompa ionica cala un ponte tra due sponde sinaptiche, e l’impulso elettrico passa da un gruppo di neuroni ad un altro. Il circuito chiuso della lampada e del pc che se ne illumina… La performance è ciò che segue e consegue alla pompa ionica, all’esibizione in pubblico: nella scatola cranica dello spazio-tempo la sinaptica interindividuale genera scariche elettriche che, però, vengono recepite come semplice comunicazione, e non come comun-emozione. Non si tratta di sentire ma di ascoltare: recepire l’informazione elettrica per quello che è: suono. Il discorso sul senso di una performance è compiuto solo dall’ascolto olistico durante la performance e dalla riconsiderazione particolare a posteriori (a casa, per strada,) dell’evento sia da parte del pubblico che da parte del (privato) attore. L’ascolto olistico avviene nell’angoscia di trovarsi davanti a se stessi in-ascoltati: si rifugge il sentire della parola e del suo significato e si tende all’ascolto dell’immagine. La tensione che ne deriva genera quasi sempre imbarazzo e difesa, raramente l’ostensione definitiva del proprio esserci davanti a se stessi, se non nella dimensione inautentica della mediazione televisiva o, tout-court, tele-mediale. Vedere se stessi ripresi mentre si ascolta il poeta è come collocare la webcam davanti al monitor e generare abyme, sprofondamento, circolo vizioso. Vedere se stessi ripresi mentre si riprende il poeta, significa riprendere la nostra ripresa nell’atto di riprendere. Scardinare il principio individuationis. Vedere me che sto vedendo, sentire la propria voce, il mio fuori di me fa paura. L’esserci si disgrega perché nello spazio mentale del sentire convivono nello stesso spazio due modi differenti di esserci: come ci vedono gli altri, come vediamo gli altri che ci vedono. Vedono il doppio, il simulacro, l’avatar: l’immagine del loro corpo è in mano, anzi nella testa del poeta. La sindrome del sosia, il delirio di Capgras, il disturbo duplicativo si associano ai palinsesti performatici di mia costruzione. È angosciante vedersi dall’alto dell’evento. Osservare l’osservatore che siamo, come su uno spartitraffico che separa parallele le corsie dell’io e dell’altro. Dall’alto… siamo altro. Lo spiazzamento è simile a quello che provai leggendo alcune pagine sulla complessità: il caos è una cosa, è il caso. La parola caos è caos e anagramma dei suoi costituenti. Allo stesso modo la possibilità di espropriarsi del proprio corpo e guardarsi agire dall’alto, significa essere-produrre gesti, non interpretare. Significa guardarsi come cosa, affidata al caso, confidata nell’oc-casione dell’evento. Meccanismo che non può che generare caos, cortocircuito, loop-feedback, tanto affascinante esteticamente (dal loop-feedback ai frattali) quanto sconcertante perché si tratta di dissoluzione dell’io, morte momentanea dell’unità dell’essere. Eppure l’individuale non è più antico del duale, non lo precede e nemmeno lo presuppone.
D’altronde per l’unità dell’individuale non occorre il duale, non esiste dialettica: esiste in natura solo l’indivi-duale. Il sé e il fuori di sé sono strettamente connessi fra loro, e il fuori di sé è inteso come interiore che esce fuori, non come ulteriore, come altro da sé che è fuori di me già precostituito. Né interno, né esterno: più complessamente in-sterno. Non si tratta di comunicare ma di esprimere, spremere fuori. Come da un tubetto di colore lascio uscire la sostanza colorata”.