Quest’opera di De Chirico è il racconto di una metamorfosi da manichino a persona, racconto diacronico nello svolgimento, sincronico nella rappresentazione.
De Chirico visse la sua esperienza artistica in un periodo di crisi conclamata della ragione. I Maestri del Sospetto avevano portato un attacco concentrico, ancorché non concertato, al pensiero forte e alla tradizione filosofica occidentale. Marx alla coscienza come autonoma produttrice di cultura e consapevolezza di sé, Nietzsche alla morale come regno della libertà dello spirito, Freud alla soggettualità, presunta, di un uomo padrone di sé e delle sue pulsioni. La filosofia, sradicata dalla metafisica, non era più il condensatore universale del sapere, meno che mai la teologia. Roba vecchia, sbrigativamente bollata come “metafisica”. Il nichilismo.
Nella letteratura e nella pittura la figura umana, destrutturata, era ora un caleidoscopio di componenti psichiche da comporre, scomporre, ricomporre occasionalmente.
La pittura italiana, e l’architettura, non si fecero condizionare da questo clima. Opposero il carnevale futurista, da cui però emerse il razionalismo architettonico, e, in pittura, il “ritorno all’ordine”, patrocinato dalla rivista e movimento Valori Plastici. Il pensiero forte e la figurazione rigorosa erano riconquistati, senza tuttavia dimenticare il disordine in agguato.
La pittura di De Chirico, intrisa del sale greco della sua occasionale nascita, si proclamò, non senza una punta polemica, “metafisica” ed espresse le sue certezze. È vero, l’uomo non è più quel soggetto olimpico dotato di ragione e di consapevolezza assolute. I personaggi di De Chirico sono allora manichini o figurine appena visibili contro il gigantismo architettonico, imprigionati in un paesaggio petroso, scossi dal perenne turbinio degli elementi. Bui porticati o colonnati di basalto li inceppano, fanno perdere il cammino, ma una radura luminosa, lo sbuffo di vapore di una locomotiva oltre un muro assicurano dell’esistenza di una visione e di un viaggio.
Nell’opera che qui presento, la ragione è visibile, la ragione umana, e si esprime nei suoi artefatti, quale il molo dalla rigorosa geometria che si protende nel mare. Le Trouble du Philosophe, 1926, olio su tela, cm 40×60, Civico Museo di Arte Contemporanea di Milano, presentemente in mostra al Convento del Carmine di Marsala.
Sul molo due manichini contro un oscuro lembo di mare e il sommosso cielo. Cirri orizzontali e tratti di pioggia o di tensione energetica in obliquo. Una struttura di pilastri di basalto nasconde la figura in secondo piano che si sporge timidamente da essi, ma è impedita da un ammasso disordinato di modanature o strutture architettoniche. Quella in primo piano, al contrario, è libera, si appoggia ad uno dei basalti e gli stessi elementi architettonici sono ora ordinatamente disposti sul suo grembo. Un tranquillo possesso, il segno dell’ingegno poietico dell’Homo Faber.
Tanto ansiosa la figura in secondo piano, quanto serena quella in primo piano che ha già iniziato a configurarsi nell’umano. Un braccio è perfettamente formato e la mano fluttua morbidamente nello spazio, il collo è tornito, la spalla porta la tunica e non è schiacciata come nell’altra figura, le gambe hanno l’assetto del riposo con la tunica, viluppo informe nel secondo piano, disposta qui ordinatamente nell’eleganza classica del panneggio. La testa ovoidale del manichino originario è embrionale e della stessa sostanza del cielo. Quella, ugualmente ovoidale in primo piano, ha una sua consistenza materica e autonomia figurale. Una linea puntiforme isola il volto-prosopon in formazione con l’orbita di un occhio già visibile sulla sinistra.
Postato dalla personalità mutante di: Piero Trupia