Fisiopatognomoscopia V
Di Piero Trupia
Per comprendere l’opera di Francis Bacon (1909-1992), e di qualsiasi altro artista, la prima cosa da fare è cercare di coglierne i significanti specifici, d’autore, nella sua scrittura, nella fiducia che, per quanto strani e fuorvianti, essi tuttavia significano, denotano un referente fuori dell’opera: situazione personale o sociale, condizione umana, struttura cosmica.
Se l’opera è valida e se il referente è inedito, nuovo è anche il linguaggio che lo designa. Nascono in tal modo, insieme alle poetiche, gli stili e, a causa della novità, emerge il problema interpretativo.
Talvolta è utile ascoltare il medesimo artista, se parla con sincerità del suo lavoro, sincerità da verificare nel confronto con quanto ha posto sulla tela o sulla pagina.
Bacon denuncia una sua malinconia di fondo e di essa troviamo effettivamente traccia nella sua opera. “Ho sempre voluto dipingere il sorriso, non ci sono mai riuscito”. Qualche tentativo di sorriso, che non riesce però compiutamente a configurarsi, è visibile nei suoi “Uomini in blu”. Una visione tragica della vita lo ha assillato nei suoi ottantatrè anni di esistenza.
In una videointervista alla mostra del Palazzo Reale di Milano si ascolta questa dichiarazione. “Si, sono ottimista. Su cosa? Su nulla, sul nulla, […] sull’esistere […] sul mio trascinarmi da un bar all’altro […] vedere i volti della gente […] mi piace la loro conformazione e poi riprenderne l’aspetto, senza però farne un’illustrazione.”
La sua è una poetica del volto e di una postura che regge un capo che mostra un viso sul quale lampeggiano i denti di una bocca spalancata nel grido, allungata in un ghigno, appena accennante un sorriso, più sarcastico che compiaciuto.
Bacon s’è detto disinteressato a un’estetica del puro segno. “Una decorazione senza un vero soggetto che ti divori l’anima […] La vera grande arte rinvia da sempre alla vulnerabilità della condizione umana”
“Vulnerabilità” è la parola chiave. Vediamo, nei suoi ritratti, visi sconvolti, corpi contratti, arti spasmodici. Il volto è un magmatico viluppo di grumi di materia in perenne movimento, quello di un’inarrestabile disgregazione. Il corpo è in tensione nel tentativo di rialzarsi, per stare al mondo, consistere nel turbine di un’energia cosmica spropositata, costruttiva dell’universo, distruttiva di ogni individuo vivente.
Talvolta il corpo si avvita a spirale per spingere in alto una testa che si erge; talaltra è malamente sdraiato, bloccato, e tenta con le dita di un piede di girare la chiave di una porta.
Fasci di luce densa investono quei volti. Vengono da lontananze cosmiche ad operare l’incessante devastazione
È la contraddizione di fondo di un’esistenza consapevolmente in degrado in uno scenario solenne, eterno.
Le figure baconiane sono incastonate in perfette geometrie che strutturano lo sfondo, comprese quelle architetture umane, che le rispecchiano, di archi e volte a crociera. È l’inganno della perfezione del cosmo contro cui, ci dice john Berger, il corpo vivente è esposto, vestito o nudo che sia, ma sempre in stato di malessere, di bisogno, in agonia.
Si è parlato di un surrealismo baconiano. Propendo per un verismo espressionista o, in un modello di Fernand Lèger, di un realismo pensato che affonda però le sue radici in un realismo visivo.[1]
Un verismo della pena da sempre presente nella storia dell’arte, nel dolore assoluto della tragedia greca o nel dolore sacrificale del Servo di Jahvé (Isaia, 40-55) [2]
Questa la lettura baconiana della condizione umana e, al seguito, della sua opera. Non visionarietà surrealistica, ma cronaca espressionistica dell’umanità al pub.
A Roma, dove vivo, i settemila barboni, alcuni alcolizzati, altri dementi, tutti ammalati di povertà, malattia sociale, codice Z59.5 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, origine di tutte le possibili malattie organiche. Baconiano, di sicuro, il volto del padre di Luna, la bimba di quattro anni, nel momento in cui ripetutamente la scaraventava sul selciato fino a ridurla in fin di vita il 19 luglio 2008.
Un caso di demenza accertato. Sana invece la madre giorgianesca che, nuda, protegge il figlioletto nudo contro la furia della tempesta imminente, per la quale entrambi potrebbero essere un danno collaterale dell’ordinaria furia dell’esistere.