di Piero Trupia.
Dopo Ligabue, era mia intenzione presentare, questa settimana, la ritrattistica di Francis Bacon (1909-1992), entrambi in mostra al Palazzo Reale di Milano fino al 29 agosto.
Ho visitato Ligabue due volte e Bacon tre prima di decidere di parlane. Bacon è spiazzante ancor più di Ligabue. Se non ci si vuol fermare all’impatto – fortissimo – se si vuol “leggere” l’opera, occorre studiarne a fondo la semiotica e passare da essa alla semantica.
Sono due mondi separati, contrariamente alla credenza dell’echianismo corrente. La prima si occupa dei significanti e del loro codice, la seconda del referente, ciò che sta fuori del linguaggio, nel mondo, e che il significante addita, evoca, richiama, significa. Non è possibile però significare, passare dal significante al referente, se non passando attraverso quel ponte ideale che è il significato, terzo vertice del Triangolo di Ogden-Richard (1923). Ma il significato, nella presente epoca nichilista e postneopositivista, viene negato. È metafisica, non esiste. A noi però serve per una lettura dell’opera d’arte in quanto testo e per la lettura di qualsivoglia testo in qualsivoglia linguaggio.
Nel caso del ritratto in modo immediato e diretto, se si assume che il ritratto e l’autoritratto non sono un semplice scatto fotografico, ma un’idealizzazione, la rappresentazione dell’essenza di una personalità in una sua precisa fisiopatognomica. Per cogliere questa idealizzazione e per raffigurarla, occorre credere, anche inconsapevolmente, nella sua esistenza e, alla base, nell’esistenza di un mondo ideale: le essenze platoniche o gli universali dei logici medievali.
Epicuro negava gli universali, che allora erano i concetti. Altro non erano che plessi di impressioni. Antistene, il cinico, ironizzava, contro Platone, “Vedo il cavallo, ma non la cavallinità.” Facile la risposta: sta fuori del mondo (dei fatti) o, meno impegnativamente, fuori del linguaggio.
La questione è più che mai aperta e le vecchie scuole degli essenzialisti – platonici, agostiniani o cartesiani – dei realisti aristotelici, dei nominalisti estremi come Roscellino sono sempre su opposte barricate. I nominalisti di oggi sono i semiotici assoluti: ogni lettera dell’alfabeto è significante in quanto distinta dalle altre, ogni termine del vocabolario significa perché ne richiama altri che lo spiegano, ogni testo trova il suo senso in altri testi che hanno già parlato dello stesso argomento. Resta senza risposta, nel modello nominalista e semiotico, la domanda di Socrate nel Cratilo: Si, ma all’origine?
Salve poche eccezioni, trovo la critica d’arte sostanzialmente afasica, esattamente perché semiotica. Vede nell’opera, quale che sia l’impostazione, segni che rinviano ad altri segni. O storia dell’arte, o filologia, o materia estrinseca come la committenza, l’impatto politico, i fattori sociali, l’accettazione o il rifiuto del pubblico e, va da sé, della critica.
Un’altra lettura mette in campo i sentimenti che l’opera suscita nel critico, rilevatore-rivelatore ufficiale, e, suo tramite, nello spettatore. Il risultato è generico e ricorda le etichette del retro della bottiglia dei vini: buon corpo, gusto…vinoso, retrogusto di frutti di bosco, sentore di frutta secca, profumo di viola. Cambia il vino e l’etichetta resta valida.
I ritratti e gli autoritratti di Bacon raffigurano un’idealizzazione che è reale, malgrado la neutralità dell’autore al riguardo. È il loro significato. Un’idealizzazione valida per il singolo non per l’umanità. Siamo nel campo dell’arte e non delle scienze umane, del singolare e dell’universale – l’universale concreto – non del generale e del plurale.
Ho ritenuto necessaria questa premessa per una lettura semantica di Francis Bacon. La lettura effettiva in Fisiopatognomoscopia V, la prossima settimana.