Marco Dotti (1974) è saggista, redattore, giornalista, traduttore e consulente, per la letteratura francofona, di Stampa Alternativa. Dopo aver letto in anteprima il romanzo Le Aziende Invisibili ha risposto a qualche nostra domanda…
Può oggi un romanzo farsi interprete della molteplicità del reale?
Credo di sì. Il romanzo, in fondo, si è sempre fatto carico di una complessità (anche comunicativa) che nell’analisi semplice rischiava di sfuggire. Verso la metà e anche sul finire del XIX secolo, chi o che cosa si fa carico di rendere visibile l’intrinseca molteplicità del reale se non il romanzo? Pensiamo a Balzac, Eugène Sue, Zola… ma anche al loro “rovescio”, là dove il romanzesco sembra implodere e forse implode davvero dinanzi a un’altra complessità, quella dell’abîme interiore… Basterebbe comparare le pagine dedicate alle folle di Lourdes da Zola con quelle sullo stesso soggetto, ma che esalano zolfo, di Huysmans o Léon Bloy per rendersene conto. O prendere tra le mani Inferno di August Strindberg, scritto in quella sorta di lingua globale che era il francese, per capire il punto esatto in cui i due estremi si fondono: complessità esterna, complessità interna, tutto trova sfogo in una pura superfice. Non è un caso se parole come “etere”, “aria”, “campo magnetico”, “elettricità”, sfuggendo dalla nicchia esoterica in cui erano confinate, diventano a poco a poco metafore o indici di quello che si sarebbe rivelato ben presto il XX secolo, un secolo di pura superficie… C’è chi, attraverso il romanzo, ha colto la molteplicità di cui parla, e chi ha saputo coglierla nel momento in cui la stessa nozione di reale si andava disfacendo…
In che modo il romanzo Le Aziende In-visibili si pone in questo senso?
Ogni romanzo, quando non pretende di riferirsi a quell’autenticità che lasciamo volentieri alle turbolenze d’animo e di stomaco dei poeti, si pone in questo senso. Credo però che Le Aziende In-visibili lo faccia meglio e con più consapevolezza di sguardo. È come avere non dico cento occhi, ma occhi da mosca. Occhi sfaccettati e composti secondo un sistema complesso, del quale è difficile ricostruire i punti di riferimento. I punti focali, intendo. Tutti abbiamo provato ad afferrare una mosca, è molto difficile, perché il campo visivo di cui dispone è molto ampio….
Una scrittura mutante, che travalica le distinzioni fra scrittori e manager,sociologi e attori, filosofi ed economisti,musicisti e designer.”(dalla copertina del romanzo Le aziende invisibili). Quali le vie per raggiungere una molteplicità di piani comunicativi?
Avere un sistema complesso di visione è legato a questo: non essere autori, non essere autore. Accettare l’inautentico, non solo il doppio di cui è zeppa ogni letteratura fin de siècle, ma il triplo, il quadruplo, il multiplo (perturbante) di sé. Millepiani: il titolo del lavoro di Gilles Deleuze e Félix Guattari ci viene in aiuto. Come costruire “mille piani” di una visione? È corretto parlare di costruzione? Direi – e questo è il caso delle Aziende invisibili- che sia meglio parlare di sovrapposizioni per stratificazione di tracce. Ognuno appone una traccia, come su un sentiero che a poco a poco di va formando in un bosco. Nessuno sa come nascano, questi sentieri spontanei, nessuno sa perché rimangano. Ma ognuno, camminandoci (scrivendo, leggendo), appone la propria traccia, la propria impronta, che a poco a poco cessa di essere un’impronta, e si stratifica. Nessuno ingloba l’altro, nessuno lo divora. Nessuno ha più pretese o ambizioni. L’io diventa quello che il giudice americano Brewster chiamava “un puro avverbio di luogo”…
Nel mercato letterario un romanzo collettivo come Le Aziende Invisibili dove può collocarsi? Quale il suo pubblico?
Tutti e nessuno. Io credo nell’anonimato della lettura, così come credo nell’anonimato della scrittura. Poi ognuno ha la maschera che ha, il nome che ha, ma queste sono convenzioni. Pubblico è una parola che non mi piace, credo sia stata introdotta nelle scienze sociali da Gabriel Tarde. E comunque Tarde la usava mentre tutti i suoi colleghi si servivano di parole ben più “solide”: massa, popolo, etc. etc. etc. Ma un pubblico, scriveva Tarde, è una massa facilmente psicotizzabile. Credo avesse fondamentalmente ragione. Tarde sapeva guardare in ciò che Bergman chiamava l’Uovo del serpente (film meravigliosamente “à la Tarde”, o “à la Mesmer”, se preferisce. Anche dietro tutto c’è sempre lui, August Strindberg… col suo Inferno). Se guardiamo l’uovo del serpente in trasparenza che cosa vediamo? Un piccolo rettile. Piccolo, ma perfettamente formato. Il romanzo è un prisma, attaverso il quale non è difficile scorgere questo rettile… L’immagine può apparire inquietante – archetipicamente – per un europeo. Ma se prendiamo i pittogrammi degli indiani Desana, così come trasmessici dall’insuperato Gérardo Reichel-Dolmatoff, vediamo che proprio così loro si rappresentavano la mente umana: due piccole anaconde, una bianca e uan nera, perfettamente intrecciate a simboleggiare i due emisferi cerebrali. Ciò che interessa, però, è l’intreccio, non la divisione fra le due pareti. I due emisferi non definiscono due “opposti”, due corni di un dilemma, ma la polarità di una sfera attraversata da campi di intensità… Ha ragione Peter Sloterdijk quando ci ricorda che non siamo più capaci di pensare per immagini. Il romanzo, in questo, ha i suoi vantaggi: recupere il non detto, l’implicito, e lo ributta nel gorgo di una realtà altrimenti incomprensibile…
Renato Bossi e Marco Dotti