Pino Varchetta su: Gomorra (regia di Matteo Garrone)
“Il mare non bagna Napoli” scriveva ormai molti anni fa Anna Maria Ortese, e in questo nuovo film di Matteo Garrone – il regista de L’imbalsamatore – non si vede mai il mare, ma il film è girato tutto a Napoli, due terzi a Scampia, quella sorta di artefatto abitativo, metafora strutturale di ogni caduta del nostro tempo, nel quale convive un’autentica “comunità di pratiche”, un gruppo umano, donne, vecchi, uomini, bambini, con ruoli diversi, con pratiche diverse, insieme connessi da un mostro chiamato camorra.
Il mare non si vede mai, quasi a significare che la città, la Napoli che il regista vuole testimoniare, è un gruppo umano ferito a morte, ma non dalle dolcezze evocate nostalgicamente da Raffaele La Capria, quanto da una devastante contemporaneità, che ha innalzato l’anomia e la caduta di ogni valore a livelli impensabili, indicibili, insostenibili. La camorra, lo sappiamo, da sempre istituisce la sua presenza nei vuoti dell’istituzione pubblica, saldando con una solidarietà tanto senza speranza quanto tenace nella sua quotidianità, le vite dei carnefici e delle vittime, in una riedizione lugubre dei lager e dei gulag della modernità. Ma la modernità a Napoli è finita prima ancora di fondarsi, conclusa con il fallimento dei processi di razionalizzazione e industrializzazione, che hanno scagliato la città nella globalizzazione del traffico di droga, di armi, di donne e di uomini. E le immagini, quasi tutte girate con un grandangolo, dilatante la realtà che schiaccia gli spettatori sulle poltrone in sala, alternano paesaggi urbani tra i più simili a gironi infernali che siano mai apparsi sullo schermo a volti schiacciati in primo piano, facce e ventri obesi, perennemente sudati, corpi praticamente svestiti, le cui protesi non sono più gli utensili della quotidianità domestica e gli strumenti e le tecnologie di mestieri diversi, ma armi per uccidere e difendersi, motociclette e auto per rincorrere o scappare. Non c’è altro. Tutto converge in un unico, enorme buco nero che inghiotte, immagine dopo immagine, le storie diverse che la cronaca quotidiana di Scampia sviluppa, ora dopo ora, capace di tenere insieme in un decadimento endemico bambini, adolescenti, donne, uomini, vecchi. La legge è una sola ed è quella del danaro, nutrita da una coazione infernale, che obbliga a non tollerare nessuno sgarro, nessuna varianza; vecchi terribili, infernali, con un piede già nella bara, decretano la morte di adolescenti che sono transitati senza soluzione di continuità dai cibi dell’infanzia alle strisce di cocaina, ebbri di gioia per essere incappati in un deposito clandestino di armi, arroganti nel non cogliere alcun segnale di rischio, presi da un sogno onnipotente di libertà da ogni legge e da ogni vincolo. Lo Stato non compare mai, se non in una breve sequenza, nella quale un gruppo sparuto di poliziotti certifica l’ennesimo omicidio, quello di una donna, come si dice una madre di famiglia, uccisa da un ragazzo sul far dell’adolescenza al quale era molto affezionata. La macchina da presa passa velocemente dal primo piano del cadavere appena coperto da un lenzuolo bianco, ai volti in primo piano dei poliziotti palesemente impotenti, per scivolare via in un piano sequenza lungo disperante, nel quale lo squallore quotidiano di Scampia, il paesaggio urbano, ridiventa protagonista. E’ una sequenza questa magistrale per segnare la fine del principio di speranza, che viene declinato in tutte le storie, ad eccezione del maestro di sartoria che, minacciato, decide di abbandonare la partita e di volgersi altrove, e dell’assistente del manager faccendiere – imprenditore di un’azienda fantasma che seppellisce nel territorio napoletano i rifiuti tossici “acquistati” da aziende del nord del nostro Paese – che, in preda a una depressione insostenibile connessa a un senso di colpa diffuso, abbandona il suo capo in una strada nel nord dell’agro napoletano, incamminandosi da solo. Lasciano entrambi la città “aperta”, uniche due ribellioni, un uomo maturo e un giovane, per strade diverse, entrambi graziati da una riflessione interna che ha fatto loro intuire, con un’operazione di senso subitanea, l’orrore della loro vita presente e insieme la possibilità di un riscatto. E così si può uscire dalla sala, oppressi da tanta orribile caduta, ma anche responsabilizzati, ognuno per il proprio ambito, a testimoniare l’esistenza di uno spazio di speranza che può essere ancora trovato, se cercato con fede e tenacia.
Postato dalla personalità mutante di: Pino Varchetta